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Che cosa sta capitando in Afghanistan a un mese e mezzo dalla conquista di Kabul

Una delle più importanti procuratrici di tutto l’Afghanistan, che lottava per proteggere altre donne dalle violenze domestiche, ora vive nascosta. La chiameremo Farishta, con un nome di fantasia. Man mano che i talebani hanno preso il potere – di città in città – hanno liberato prigionieri, criminali e militanti islamisti. Tra questi anche Mohamad Gol, un presunto kamikaze che Farishta aveva scovato e fatto arrestare. Farishta ha raccontato alla BBC di aver ricevuto una sua chiamata di minaccia, per vendicarsi. E così, è costretta a vivere nascosta, spostandosi da un posto all’altro. La storia di Farishta è quella di molte altre donne che negli anni avevano deciso di entrare nella società civile e farsi conoscere. Avvocatesse come lei o altre professioniste che oggi devono nascondersi. Ci sono poi donne che dopo essere state protette e ospitate in rifugi anti-violenza, ora sono costrette a mettere di nuovo in discussione la propria esistenza. Come Zari, 28 anni, sopravvissuta a tante violenze in famiglia, che ora rischia di ritrovarsi di nuovo sola.

Molti centri di aiuto per le donne presenti in Afghanistan, su indicazione dei talebani, hanno chiuso i battenti, racconta il Guardian. Sono state rimandate a casa e, quindi, dai propri aggressori. Altri, sono ancora aperti e tengono le donne nascoste anche se non vogliono accogliere altre donne abusate nelle loro strutture. Questa, come tante altre storie, mette in luce la precarietà della condizione femminile nel paese e le tante incognite sul futuro. Oltre alle donne, a essere colpiti maggiormente dalla crisi umanitaria, economica, politica e sociale che ora l’Afghanistan sta vivendo sono i bambini. Molti sono costretti a lavorare e, per farlo, rischiano anche la vita. È il caso di centinaia di bambini, alcuni di appena sette o otto anni, che ogni giorno attraversano il confine con il Pakistan e con gli altri paesi vicini nascondendosi sotto ai camion per il trasporto merci. Nelle loro tasche, sigarette e dolci per il contrabbando. Tutto per guadagnare circa 10 dollari a viaggio, rivelano alla BBC. “Meglio rischiare che morire di fame”, dicono. Altri bambini chiedono l’elemosina, abbracciati alle loro madri che indossano il burqa, nel quartiere Shahr-e Naw di Kabul.

Un quartiere che era tra i più moderni della capitale. Ora abbandonato a se stesso e ritratto nelle foto di William Daniels per Le Monde. Le città afghane, sotto i talebani, hanno preso un’altra conformazione. Migliaia di sfollati, in fuga dalle violenze dei talebani, ora vivono in alloggi di fortuna, come nelle tante tende allestite in un parco pubblico proprio nel quartiere Shahr-e Naw. Tra gli sfollati c’è anche Nor Agha Nori. Mentre culla due dei suoi bambini, racconta a Reuters di come vive da quando i talebani hanno preso il potere: “Siamo sette persone in famiglia e non abbiamo pranzato né cenato”, dice. “Finora, non abbiamo ricevuto alcun aiuto da nessuno”. A un mese e mezzo dalla conquista di Kabul, l’economia afghana è in caduta libera. Mancano gli aiuti internazionali e umanitari. E le storie, dai centri alle periferie sono molto diverse. Mentre nella capitale gli afghani aspettano di vedere come governeranno i talebani, nelle zone più rurali – come a Sinzai – lo sanno già.

Qui vige la sharia, e anzi, questo è interpretato come un momento di pace, dopo che per anni proprio i territori più periferici sono stati quelli più colpiti dagli attacchi americani. “Gli americani non ci hanno lasciato nulla”, ha detto Khan Mohammed, proprietario di un negozio fuori da una base militare americana al Washington Post. Anche qui, nonostante le interpretazioni diverse che si possono dare agli ultimi vent’anni di storia afghana, però si vive la fame. Gli afghani cercano di sopravvivere ma la speranza di molti resta quella di partire. Come dimostra la folla che si è radunata non appena l’ufficio passaporti di Kabul ha riaperto.

di Simonetta Poltronieri

Foto | Kabul

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    Si è concluso questa mattina il presidio organizzato davanti all’ufficio immigrazione di via Montebello a Milano per chiedere la liberazione di Ayoub. Il ventunenne di origini tunisine è stato liberato dopo quasi 18 ore di fermo. Ieri pomeriggio si trovava davanti a un bar sotto casa insieme a un amico, quando è arrivata una volante della polizia che ha iniziato a controllare i documenti dei presenti. Gli agenti gli hanno tolto il telefono e l’hanno portato in questura perché il suo permesso di soggiorno non era in regola. Ayoub, che partecipa alle attività del centro sociale Lambretta ed è seguito dalla comunità Kayros di Don Claudio Burgio, ha passato la notte in questura in attesa di un’udienza per decidere della sua espulsione dal territorio italiano. Dopo aver fatto domanda d’asilo, questa mattina Ayoub è stato liberato. Il 22 aprile dovrà presentarsi nuovamente all’ufficio di immigrazione con il suo avvocato. Secondo il centro sociale Lambretta, che ha organizzato il presidio, “quello che è accaduto non è un’eccezione: è la normalità per oltre un milione di persone senza documenti in Italia. Un sistema che criminalizza la migrazione, sospende lo stato di diritto e produce esclusione sociale”. Dopo il rilascio di Ayoub, le persone in presidio, una cinquantina, l’hanno accolto con un coro: “Tutti liberi, tutte libere”. Tra gli applausi, i ragazzi e le ragazze che lo aspettavano si sono stretti attorno a lui in un abbraccio collettivo. Chiara Manetti ha intervistato Ayoub dopo il suo rilascio.

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