E’ andata come da copione. Anzi, stavolta Daniel Ortega, a scrutinio quasi ultimato, avrebbe superato il record del 70 per cento dei consensi. Del resto, quando disponi mesi prima la clamorosa destituzione di tutti i deputati dell’opposizione in parlamento e designi tu stesso chi dovranno essere i tuoi contendenti; e, come se non bastasse, vieti ogni osservazione elettorale indipendente e internazionale, il successo non può che essere garantito; e nelle dimensioni che stabilisci a tavolino.
All’opposizione (liberale e dei sandinisti fuorisciti) non è rimasto che chiamare all’astensione che, assicura, avrebbe riguardato i tre quarti degli aventi diritto. Le autorità elettorali “orteguiste” sostengono invece che la diserzione dal voto abbia contato per un fisiologico 35 per cento.
Un fatto è certo: girando ieri per i seggi della capitale non si sono viste le interminabili code delle elezioni del passato. Nonostante, in questo clima di vera e propria caccia alle streghe, i dipendenti statali siano stati minacciati di perdere il posto se non si fossero recati alle urne.
Ma andiamo ancora più al sodo. A che pro tutto ciò?
Chi pensa che Daniel Ortega, sempiterno candidato di quanto rimane del Fronte Sandinista (alla sua terza rielezione consecutiva) stia ripercorrendo le orme della passata Rivoluzione Popolare, inganna se stesso.
Nel Nicaragua dimenticato o rimosso, l’ex comandante guerrigliero ha patteggiato in questi anni con la destra ultrareazionaria e con la vorace impresa privata (garantendole esoneri di imposte, assenza di scioperi e i salari più bassi del Centroamerica); con l’arcinemico storico cardinale Obando Y Bravo (facendosi da lui risposare in chiesa e cancellando la legge che consentiva l’aborto terapeutico); fino a compiacere il Fondo Monetario Internazionale e sostenere il trattato di libero commercio con gli Stati Uniti (il Cafta).
Il tutto per fare affari per la sua famiglia e il suo clan. Collocando i numerosi figli in posti chiave dell’economia e dei media. Fino a imporre la moglie, Rosaria Murillo, come sua vicepresidente. Il che prefigura l’avvento di una nuova dinastia.
E dei poveri che tanto sbandierava di voler rappresentare? La realtà è che dopo dieci anni di suo “nuovo” governo il Nicaragua continua ad essere il Paese più indigente dell’America Latina (dopo Haitì). Quella di Ortega verso i meno abbienti è una politica puramente assistenzialistica: con la distribuzione di qualche animale da cortile o lamine di zinco per i tetti delle catapecchie dei più diseredati. Nulla di strutturale. E se il Nicaragua non è entrato nella spirale di tragica violenza quotidiana come i vicini Honduras, El Salvador e Guatemala (che ne fanno i Paesi più violenti al mondo in assenza di conflitti) lo si deve ancora alla passata rivoluzione che creò una polizia e un esercito da zero.
Ma i conti stanno venendo al pettine, dentro e fuori del Nicaragua; che già non potrà contare sui denari e il petrolio del Venezuela di Nicolas Maduro (che Ortega gestiva in proprio, fuori dal bilancio dello Stato).
Daniel stavolta ha esagerato.
Del resto, se si fosse sentito così sicuro del sostegno così massiccio dei nicaraguensi, perché avrebbe dovuto orchestrare una simile gigantesca farsa elettorale?