Nel quarantesimo compleanno della legge 194 che ha legalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) in Italia, centinaia di iniziative riportano al centro del dibattito pubblico il tema del diritto alla scelta in campo sessuale e riproduttivo, anche per fare un bilancio di successi e fallimenti nella sua applicazione.
Chi la difende richiama la riduzione del ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza, tre volte meno rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il picco nel numero di interventi, riduzione costante e progressiva (dati del Ministero della Salute).
Chi ne mette in luce le criticità sottolinea gli ostacoli derivanti dal ricorso indiscriminato all’obiezione di coscienza, previsto dalla legge per il personale medico e paramedico – pratica definita anche “rifiuto di curare per motivi di coscienza” (1). Le Regioni, sempre secondo la legge, avrebbero dovuto vigilare affinché le strutture garantissero comunque il servizio IVG, ma non lo hanno fatto. Infatti oggi, in Italia, sono circa 4 su 10 circa le strutture ospedaliere pubbliche a non avere ambulatori IVG pur essendo deputate a farlo (quelle cioè con un reparto maternità). In Lombardia solo in 5 strutture l’obiezione è inferiore al 50%. Sono ben 6 su 63 i presidi nei quali la totalità di ginecologi e ginecologhe è obiettore di coscienza. In 16 strutture è superiore all’80% (fonte blogdem).
La stessa legge che ha sottratto le donne alla piaga dell’aborto clandestino, dunque, ora rischia di ricacciarcele. È una legge ambigua, sostengono le detrattrici, che afferma due diritti in contrasto tra loro, il cui bilanciamento è affidato alle alterne vicende delle politiche sanitarie regionali ed al colore dei governi che le gestiscono, oltre che al buon cuore di ginecologi e ginecologhe sempre meno interessate (il genere femminile è oggi maggioranza numerica della categoria) a fare un lavoro in più a parità di stipendio.
Nello schieramento in difesa e in accusa della legge 194 vi sono manifeste differenze generazionali, con le militanti più anziane schierate per “la difesa e la corretta applicazione” della legge e le più giovani pronte ad aprire campagne per la sua modifica e per l’abolizione dell’articolo 9. Solo per fare un esempio, in questo controverso 40° compleanno le donne dell’Udi dichiarano che “la legge 194 non si tocca, 40 anni di lotta per difenderla e farla applicare”, mentre le femministe di Non una di meno di Bologna aprono un dibattito “a partire dai limiti di una legge che non garantisce i nostri diritti”.
Su una cosa sono, siamo, tutte d’accordo. La legge 194 ha sancito il principio che abortire sia una scelta morale tanto quanto partorire e che all’origine della vita ci sia una donna che, in piena coscienza, dice sì. L’accettazione di questo principio, in una comunità, segna una discontinuità nella propria storia da cui è difficile tornare indietro.
Rossa è la linea che separa il lecito dall’illecito proprio lì, nel luogo più intimo e insieme politico che esista al mondo: le nostre origini, la riproduzione della vita. È un problema di vita o di morte. Lo è per un feto, certo, come ci ricordano i “camion vela” e i manifesti diffusi in oltre cento province italiane dal movimento ProVita. Del nascituro, peraltro, le donne si sono sempre preoccupate poiché alle donne, storicamente, è toccato l’onere e l’onore del lavoro riproduttivo e di cura, al quale sono state legate per obbligo di legge fin da quando il diritto latino ha codificato la maternità come mater munus, addomesticando la sessualità femminile entro la griglia della famiglia patriarcale.
Ma è un problema di vita e di morte soprattutto per le donne, come ci ricorda l’Organizzazione mondiale della sanità che calcola circa 25 milioni di aborti non sicuri in tutto il mondo ogni anno, perlopiù nei paesi in via di sviluppo. Ogni anno tra il 4,7% e il 13,2% delle morti materne può essere attribuito a un aborto pericoloso. Ancora secondo l’OMS, sono 7 milioni di donne ricoverate ogni anno in ospedale a seguito delle complicazioni che derivano da aborti clandestini, con un costo annuale stimato in 553 milioni di dollari. Emorragie, infezioni, lesioni genitali e agli organi interni sono le principali complicanze di aborti non sicuri che possono mettere in pericolo la vita di una donna.
Sempre secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, “quasi tutte le morti e le disabilità di aborto potrebbero essere prevenute attraverso l’educazione sessuale, l’uso di contraccezione efficace, la fornitura di aborto sicuro e legale e la cura tempestiva delle complicazioni” (Fonte Organizzazione mondiale della sanità)
Questa era la situazione in Italia prima della legge 194. La negano i ProLife in una massiccia operazione di revisionismo storico, la testimoniano documenti come Inumane vite, un libro eccezionale in cui l’Aied di Roma, nel 1969, pubblica decine di storie raccolte nella periferia di Roma durante una inchiesta-azione che prevedeva il rifornimento di anticoncezionali porta a porta e insieme la raccolta di dati. È una galleria raccapricciante, in cui le donne descrivono gli aborti clandestini come unico mezzo di controllo delle nascite oltre allo schifo e alla paura dei rapporti sessuali subiti senza piacere e con il terrore di incorrere in nuove gravidanze.
Le piazze del 2018, quarant’anni dopo, tornano a riempirsi per affermare un diritto scritto sulla carta, ma sbiadito da una patina di indifferenza e trascuratezza, oltre che da attacchi feroci dei settori del fondamentalismo cattolico e dell’estrema destra
Tra le molte segnaliamo quelle della rete “Non una di meno”, con iniziative in 20 città italiane per il 22 e 26 maggio – a Milano l’appuntamento di sabato 26 maggio è al Parco Guastalla, per “una giornata senza obiezione”.
È inoltre possibile firmare la petizione sull’aborto farmacologico, promossa dalla rete nazionale moltopiùdi194, che chiede eliminazione dell’obbligo di ricovero, somministrazione anche in consultorio, 63 giorni come termine ultimo per l’uso della tecnica, formazione degli operatori secondo le linee guida scientifiche più aggiornate.