È scattato ufficialmente da qualche giorno il conto alla rovescia che porterà il 23 giugno prossimo al referendum britannico sull’uscita dall’Unione Europea.
Per l’Europa è una zavorra non indifferente, visti i tempi che corrono: la crisi economica da cui il continente non riesce ancora a uscire; l’instabilità del suo sistema finanziario (i crolli in Borsa che hanno colpito le banche nelle settimane scorse ne sono una prova); le rischiose fughe in avanti di diversi Paesi europei sul tema dei controlli alle frontiere contro i migranti (l’Austria ne è l’ultimo esempio in ordine di tempo); e infine, l’intensificarsi delle operazioni militari in Libia, un Paese a rischio dissoluzione che si trova alle porte dell’Europa.
In questo contesto il 23 giugno i sudditi britannici andranno a votare per decidere se restare o uscire dall’Unione europea. Il primo ministro britannico David Cameron la settimana scorsa ha negoziato con i leader europei una serie di nuove eccezioni al suo status di Paese membro, nel caso vincessero i sì all’Unione europea. Nel caso contrario si aprirebbe una complessa e lunga trattativa per la separazione tra Londra e Bruxelles. Qualunque risultato ci sarà al referendum, la situazione attuale nei rapporti tra Gran Bretagna e Unione europea è destinata a cambiare.
Memos ne ha parlato con David Ellwood, esperto di relazioni internazionali della Johns Hopkins University di Bologna, e con Tommaso Frattini, economista dell’Università degli Studi di Milano e collaboratore del Center for Research and Analysis dell’University College di Londra.
Il referendum è stato voluto dal primo ministro David Cameron che comunque si spenderà per il “Sì”, nonostante il suo partito conservatore presenti forti defezioni: il sindaco di Londra Boris Johnson e alcuni ministri del governo.
Il professor Ellwood ricorda che il partito conservatore britannico «da anni è diviso sull’appartenenza all’Unione europea. Poi recentemente, con la nascita dello Ukip di Farrage, un partito antieuropeo, Cameron si è sentito vulnerabile su questo fronte. Se a ciò – prosegue Ellwood – aggiungiamo che tutti i grandi giornali sono a favore del distacco dall’Europa, ecco che il premier britannico si è sentito in obbligo di sciogliere il nodo e risolvere la questione del rapporto con l’Europa una volta per sempre».
A chi conviene l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea?
«È difficile dirlo», risponde il professore della Johns Hopkins di Bologna. «Siamo in un’epoca di populismi, di protezionismo in cui ogni nazione si chiude in sé di fronte alle paure provocate dalla recessione. L’integrazione europea è un progetto dei tempi buoni, in cui l’economia nazionale e internazionale è in espansione. Se guardiamo al “big business”, alla grandi aziende, i grandi enti transnazionali, tutti loro tendono a saper gestire l’interdipendenza. Invece le forze popolari vedono minacce, invasioni. Le parole che ricorrono di più nei loro discorsi sono sovranità e democrazia».
Giriamo la stessa domanda – a chi giova l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea – al professor Tommaso Frattini. «Credo che finirebbe per giovare a ben pochi», sostiene l’economista. Direi che sarebbe dannoso per la Gran Bretagna dal punto di vista economico. E ciò rappresenterebbe il costo maggiore. Sarebbe poi dannoso per il processo di integrazione politica europea che ne uscirebbe indebolito. Un’eventuale uscita della Gran Bretagna – prosegue Frattini – rischierebbe di innescare delle pulsioni che potrebbero portare ad uno smembramento dell’intera Unione Europea».
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