Testo a cura di Flavio Zocchi e Luca Giovannoni
Boston e la sua passione per lo sport. Siamo stati per qualche giorno a Boston, una delle città simbolo dell’indipendenza e della “società nuova” che diedero vita agli Stati Uniti D’America.
Siamo stati laggiù e, in quanto collaboratori del programma Barrilete Cosmico (condotto da Matteo Serra, in onda tutti i mercoledì sulle nostre frequenze alle 10.30), ci siamo dilettati a dare uno sguardo ad una delle città più importanti per lo sport americano, qui e nella diffusa e rurale campagna del Massachusetts – infatti – lo sport è una passione enorme che coinvolge generazioni di donne e uomini, le finali di una qualsiasi disciplina e in tutte le categorie – come mi racconta spesso un’amica di Amherst – sono più importanti di qualsiasi elezione.
In effetti il valore dello sport in città e nei dintorni è evidente fin dai nomi delle squadre che rappresentano Boston e la regione, team che – anche ai meno interessati – hanno un significato se non altro per il “brand” pop che si portano dietro: parliamo dei Red Sox per il baseball e dei Celtics per la pallacanestro, a cui si aggiungono i New England Patriots per il football americano e i Boston Bruins per l’hockey su ghiaccio.
I “calzini rossi” sono insieme agli Yankees di New York, la squadra di baseball più famosa del ‘900, tanto osannanti quanto perdenti: per 86 anni sono stati incapaci di vincere il titolo, maledizione sfatata nel 2004.
Nel basket NBA i Celtics sono la squadra con più campionati vinti (17) ed autentici pionieri: furono la prima franchigia a vincere un campionato con atleti afro-americani nel anni ‘60, poi i Celtics del mitico Larry Bird – negli anni ‘80 – hanno contribuito (insieme agli acerrimi rivali, i Los Angeles Lakers di Magic Johnson) a dare all’NBA una nuova linfa, globale e di intrattenimento.
Infine i Patriots del Football: la squadra più titolata dello sport americano, la squadra che ha come giocatore di punta Tom Brady, il quarterback –forse – più forte della storia di quello sport ed unico team a giocare nell’area metropolitana di Boston, non in città.
È quindi una passione infinita quella che serpeggia a Boston, te ne accorgi in arrivo all’Aeroporto Logan dove gli stendarti dei titoli vinti nel Basket, Hockety e Football si sprecano, lo si capisce dall’incredibile quantità di t-shirt, felpe, patches e bandiere che vedi per strada e lo si capisce anche dal centro di Boston; a pochi metri dal Municipio infatti c’è la statua-omaggio a Bill Russell: primo giocatore afro-americano a vincere un titolo NBA, Bill è una delle icone dello sport a stelle e strisce, soprattutto del basket, di conseguenza è un mito per la comunità black, la scultura è composta da 10 cubi di granito che circondano la statua di Russel, per un totale di 11 elementi (come i campionati da lui vinti), ogni blocco ha una parola scritta e una citazione che evidenziano l’importanza di Bill nel combattere pregiudizi, divisioni e la linea del colore tutt’oggi ancora fortemente presente nella società americana.
L’iconica presenza di Bill l’abbiamo avvertita visitando il Boston Madison Square Garden, il palazzetto dello sport dove i Celtics giocano il loro campionato, The Garden è una delle icone dello sport USA, è uno dei palazzetti più famosi, per il pubblico, per la posizione centralissima sulle colline del centro di Boston, per il suo mitologico parquet incrociato…. dicevamo, anche al Garden la presenza di Bill si sente.
Ci sono decine di foto all’interno del palazzo e un graffito splendido è stato disegnato giusto all’entrata degli spogliatoi dei Celtics, lì tra giocatori e lo staff tecnico dei biancoverdi incontriamo Francis O’Brian, capo organizzativo per i Boston Celtics, è colui che da oltre 55 anni gestisce gli spogliatoi dei Celtics, a lui abbiamo chiesto come ci si sente a far parte di un’organizzazione così storica e a vivere a stretto contatto con i giocatori e ovviamente se ha mai lavorato con Bill Russell: “Lavorare qui è ovviamente speciale, sono tanti anni che ho iniziato qui, prima ero un ball-boy, poi ho fatto carriera e ad oggi sono qui e gestisco gli spogliatoi dei Celtics, in 50 anni ne ho viste di tutti i colori e devo dire che non ci sono momenti speciali, certo vincere le finali….vincere sei anelli….è stupendo! Da ragazzino vedevo tutti i giorni Bill Russell al suo ultimo anno qui, un mito. Poi Larry Bird e gli altri, sai 50 anni qui sono tanti, beh è stato bellissimo. Ma anche oggi mi diverto, nonostante gli acciacchi dell’età arrivo qui e sono sempre felice perché so di esser privilegiato perchè parlo con gente come loro…” ci dice indicando con un cenno la giovane superstar Jayson Tatum che ricambia il nostro saluto.
C’è da dire che tornati sulle strade di Boston abbiamo avvertito -passo dopo passo- anche le contraddizioni di questa città che sono evidenti, soprattutto in questi tempi di trumpismo dirompente, ed ecco il contrasto: Boston – una città liberal e ‘moderna’ – è forse l’unica città dove lo sport può essere preso come campione per guardare all’America del pregiudizio, della linea del colore, soprattutto.
Ad esempio, proprio l’icona Bill Russell è un punto di frizione perché “la linea del colore” qui in città quando si parla di sport è tuttora un grave problema.
Lo è da tantissimi anni, lo fu in maniera convulsa il giorno dell’omicidio di Martin Luther King, quel giorno stavano per iniziare le finali (di conference) di NBA, tra Boston di Bill Russell e Philadelphia di Wilt Chamberlain, entrambi decisi a non giocare la partita, negli spogliatoi di entrambe le squadre c’erano atleti afroamericani arrabbiati, sbigottiti, impauriti mentre in mezza america era un crescendo di tumulti e riots nelle strade.
Nello spogliatoio di Phila la decisione – di giocare – viene presa con una specie di referendum (non richiesto da Chamberlain e dai giocatori “black” in minoranza che erano per non entrare in campo), nello spogliatoio dei Celtics invece, è proprio l’allenatore Auerbach, di origine ebraica e figura oltre il mito per chi ama il basket, a chiedere ai suoi cosa volessero fare.
I Celts erano una squadra in cui militavano sette neri ma anche bianchi, cattolici, protestanti, ed erano tutti molto uniti. Alla fine si giocò quella partita ma poi Bill e gli altri dissero stop, la partita successiva venne spostata e Russell e Chamberlain – rivali da sempre – parteciparono insieme al funerale di M.L. King. Sono passati oltre 50 anni ma quella serata rimane uno degli episodi più incredibili dello sport americano e ci ricorda che la questione razzismo come in altri ambiti della società, è ancora un tema caldo, soprattutto a Boston.
“Boston ha una reputazione, in parte un lascito di molto tempo fa, che c’è più razzismo negli sport di lì che altrove; soprattutto nel baseball“, ha detto Richard Chick, direttore dell’Istituto per la Diversità e l’Etica nello Sport presso l’Università della Florida, Chick ha voluto commentare lo spiacevole episodio capitato qualche tempo fa al battitore Adam Jones quando giocando a Boston è stato più volte chiamato con la parola con la N e accolto da lanci di noccioline dai tifosi dei Red Sox: Jones ha candidamente ammesso “Lo sappiamo, lo so io e lo sanno tutti gli altri miei colleghi afro-americani, quando andiamo a Boston bisogna aspettarsi certi comportamenti ed insulti”.
È quindi importante rimarcare come i Celtics (ma anche i Bruins nell’hockery) furono pionieri negli anni ’50 e ‘60, ma vale la pena ricordare che Red Sox sono stati l’ultima squadra di baseball della Major League a schierare un giocatore nero, i loro uffici si trovano su Yawkey Way, dal nome del vecchio proprietario Yawkey, non esattamente un personaggio che lottava per i diritti dei più deboli, un personaggio che si rifiutò di comprare Jackie Robertons, forse il giocatore più forte della storia di quello sport. Ecco perchè Bill Russell e i Celtics sono così importanti: furono la prima squadra a pescare un giocatore nero, la prima a schierare un quintetto base afro-americano e – infine – i primi ad assumere un allenatore nero.
Anche se è un dato certo che sempre più fan neri e latini hanno iniziato a frequentare le partite di baseball, rimangono comunque in minoranza, cosa invece ben diversa dal Boston Garden, dove le differenze di “colore” sono decisamente impercettibili. Merito del sistema NBA, merito del lavoro svolto in tantissimi anni dalla franchigia di Boston, merito di icone come Bill Russell.
Foto di Amir Issaa