Antefatto: la Stampa, dopo il triplice femminicidio di Roma, ha pubblicato un articolo a firma, anzi a pseudonimo, di Patrizio Bati, scrittore che racconta di essere stato una ventina di volte nell’appartamento delle due donne cinesi, peraltro ancora senza nome, in qualità di cliente.
A mio avviso, (quasi) tutto ciò che non bisogna fare quando si scrive di un femminicidio e quando questo ha per teatro un contesto di prostituzione: con il vestito dell’insider nell’ambiente che dovrebbe dare ‘esclusività’ al racconto (e già su questo punto c’è molto da dire e riflettere) un esercizio di modestissima scrittura e troppi e pesanti stereotipi – la pelle ambrata e gli occhi a mandorla, le ombre cinesi, le finestre chiuse, la Roma che mai hanno visto e non vedranno. Immediata, sotto forma di proteste e mail bombing, è arrivata la reazione di tante (anche stavolta, uomini non pervenuti) di cui il giornale ha dato conto con una doppia pagina in cui, oltre a pubblicare alcuni dei messaggi, molti dei quali vengono dal mondo di chi lavora contro la violenza sulle donne, difende e spiega la propria scelta. In sintesi con due motivazioni: non stiamo normalizzando o tantomeno giustificando ma raccontando, la prima delle due motivazioni; il racconto di Bati disturba perché è la banalità del male a darci fastidio, la seconda.
Alla vigilia del 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, rimbalza con forza il tema della responsabilità, che afferisce ai media, delle parole e del racconto della violenza. C’è una domanda chiave: c’è qualcosa nel racconto di Bati che non sapevamo, non potevamo immaginare della vita di queste vittime, qualcosa che dà a chi legge conoscenza e consapevolezza? No, nulla aggiunge e molto toglie, quel racconto, e non perché ci fa scoprire la banalità del male ma perché sceglie le tinte più sbagliate – dall’estetizzazione un po’ pruriginosa all’infimo gusto dei ‘rigagnoli di sperma’ che scorrono nel Tevere e che avrebbero dovuto, almeno quelli, far suonare un campanello d’allarme a chi quell’articolo ha letto prima della pubblicazione – e mai fa neanche lontanamente cenno alla questione centrale della domanda maschile di prostituzione di cui l’autore è peraltro parte. E non basta dire che si tratta del racconto di uno scrittore (Bati, pseudonimo pare ispirato al nome del serial killer di ‘American Psycho’, è autore del romanzo ‘Noi felici pochi’ , la cui sinossi ci informa che tutte le persone di cui si parla nelle scene di violenza descritte sono state realmente aggredite e malmenate); non basta perché resta in capo al giornale la responsabilità delle parole, tanto più pesante proprio perché insistono su una delicatissima vicenda.
Qualche dato per capire di più di un mondo complesso e articolato che mette insieme le donne vittime di tratta e sfruttate e quelle che in autonomia si prostituiscono. Detto che le vite di queste donne e dunque le violenze che subiscono restano, assai più di quelle di altre, lontano dai riflettori non solo dei media ma anche degli apparati dello Stato, tra il 1988 e il 2018 in Italia vi sono stati 485 omicidi di prostitute, dettagliano Paola Degani e Gianfranco Della Valle che, nel 2020, hanno dedicato uno studio ai femminicidi delle prostitute. Ricordando studi epidemiologici americani secondo i quali il rischio di essere uccise è 18 volte più alto per loro rispetto alle altre donne (altre ricerche danno stime molto più pesanti), scrivono: “Se le uccisioni che hanno come vittime le donne rimangono ‘irrisolte’ solo nel 10% dei casi in assenza di un autore di tali crimini, negli omicidi/femminicidi di prostitute circa il 45% dei responsabili resta ignoto. Una percentuale davvero alta che non rende giustizia a queste donne e nemmeno alla società riproducendo, anche se in modo silenzioso e difficilmente dimostrabile, un’odiosa discriminazione tra donne ‘per bene’ e donne ‘poco meritevoli del rispetto’ della pubblica opinione”.
Di questo (e molto altro) parliamo o meglio dovremmo parlare, non di ombre cinesi, non di ciglia lunghe e pantofoline. Ed è frustrante, e non rende un buon servizio a chi legge, pensare che tutto ciò che in convegni e aule universitarie viene raccomandato in tema di un veritiero racconto della violenza contro le donne resti poi lì confinato.