Sante parole

“Una lingua è un dialetto con un esercito e una bandiera”

Negli ultimi decenni in Europa l’idea di Stato-nazione come l’abbiamo conosciuta dal primo Ottocento (o dal Romanticismo, se preferite) in poi, è stata messa in discussione dalle spinte concomitanti e divergenti dell’europeismo e dell’autonomismo (spinte che spesso hanno portato alla nascita di un altro “-ismo”, il sovranismo, ma questa è un’altra storia).
Uno degli strumenti principali nella costruzione di identità autonomistiche spesso fai-da-te è quello della lingua: quante volte ci siamo sentiti dire “il [aggiungere il nome di un dialetto a piacere] è una lingua, non un dialetto”?
Peccato che, malgrado quasi due secoli di sforzi, i linguisti non siano ancora arrivati a una definizione univoca e condivisa della distinzione tra lingua e dialetto, al punto che Max Weinreich, un sociolinguista specializzato nello studio dello yiddish, provocatoriamente arrivò ad affermare che “Una lingua è un dialetto con un esercito ed una marina” (“e una bandiera”, nella versione modificata dal linguista inglese Randolph Quirk).
Il criterio comunemente accettato è che la lingua è stata sottoposta a un processo di standardizzazione, mentre un dialetto generalmente no. Questo peraltro è un criterio per così dire “non naturale” (ok, ok, l’ho detto male), dipendente da una decisione “a posteriori” di natura politica: prendiamo delle persone che presumiamo competenti, paghiamo loro uno stipendio e chiudiamole in una stanza per decidere se in un’ipotetica lingua bergamasca standard, quella che in italiano è la roncola si debba chiamare fölsch (come ad Averara, in alta Val Brembana) oppure podét (San Giovanni Bianco, 14 km più a sud) o pigazza (Sedrina, 30 km più a sud) o ancora scorláss (Calusco, 55  km più a sud)*.
Questa opera di normalizzazione è stata compiuta per esempio con il catalano e con il basco (standardizzando quelle che erano i sei dialetti baschi e un’infinità di varianti locali), spesso utilizzando criteri più politici che linguistici, per esempio adottando sempre la grafia più distante da quella del castigliano (il gràcies catalano si pronuncia esattamente come il gracias castigliano, tanto per dirne una).
Ovviamente la questione dei dialetti e dei regionalismi è una delle croci-e-delizie del mestiere del traduttore: nella Holt di Kent Haruf i personaggi più umili dicono of anziché have, l’argentina Mariana Enriquez nel suo ultimo romanzo (Nuestra parte de noche, ancora inedito in Italia) gioca a più riprese con il modo di parlare (“da telenovela messicana”) di un inglese che evidentemente non ha imparato lo spagnolo in Argentina. Come si rende per un lettore italiano la coloritura locale di un pescatore di Vigo che parla di un ollomol, un pesce che in castigliano si chiama besugo e in italiano occhione (ma anche pezzogna in Campania, e in Liguria, guarda un po’, besugo)? Per fortuna i traduttori, che sono gente pedante ma anche pragmatica, hanno almeno creato Fishbase, un glossario paneuropeo dei nomi dei pesci!

*disclaimer: nessun bergamasco è stato maltrattato per scrivere questo post. E io non sono un linguista, tantomeno un dialettologo; sono solo un tuttologo dell’internet e questo è un copia-e-incolla dal profilo Facebook di una persona che non mi pare di conoscere personalmente, quindi se questa cosa della roncola non fosse corretta, siate indulgenti: il concetto comunque mi pare comunque chiaro.

  • Fabio Cremonesi

    Studi di storia dell'arte medievale, un passato da operaio presso uno spedizioniere, dirigente in una multinazionale delle telecomunicazioni, editore e promotore editoriale, oggi mi dedico alla traduzione a tempo pieno. Le mie lingue di lavoro sono tedesco, inglese e spagnolo (occasionalmente anche portoghese e catalano). Con Le nostre anime di notte di Kent Haruf ho vinto il premio Corriere della Sera-La Lettura per la miglior traduzione del 2017.

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    I paesaggi della Vacca Rendena è un presidio Slow Food tra l’omonima valle trentina che dà il nome alla razza e all’Altopiano di Asiago, in Veneto. Un animale molto adatto all’allevamento in montagna, tanto da avere anche il soprannome di bovino per la pace. Un appellativo dovuto alla capacità di questa vacca di adattarsi anche ai Balcani, dove, al termine della guerra nella ex Yugoslavia, era stata introdotta nella cooperazione per la ricostruzione. Il termine Equilibrio, come i prati stabili alpini, per Le parole dell’agroecologia del professore Stefano Bocchi dell’Università Statale di Milano. I prezzi dei fertilizzanti azotati sui mercati internazionali dopo il boicottaggio di quelli russi e bielorussi per la guerra all’Ucraina nelle Multinazionali del cibo, queste sconosciute di Andrea Di Stefano. La recensione del libro “9 miliardi di pasti a tavola” sull’agricoltura digitale nelle Storie Agroalimentari di Paolo Ambrosoni. Formaggi e territorialità. In Francia lo studio dei terroir è importante anche per le produzioni lattiero casearie di Samuel Cogliati Gorlier. Racconti di alcuni formaggi e loro alpeggi: zigher e fodom delle valli ladine delle Dolomiti, presidio Slow Food; il Tombea e le orchidee della Val Vestino, Lombardia orientale tra il Lago d’Idro e il Garda Bresciano; e il Bettelmatt dop della Piemontese Valdossola, al confine con il Vallese e il Canton Ticino. Per gli autori fuori porta, geografie e storia dei paesaggi lombardi del Teatro Franco Parenti, con il supporto della Regione Lombardia, due brani delle Georgiche di Virgilio, uno dedicato alle antiche coltivazioni di lino, un altro ai vigneti. Selezionati dall’agricoltore filologo Niccolò Reverdini, letti dall’attrice Anna Nogara nella Sala degli Arazzi del Castello Sforzesco di Milano, durante una messa in scena di Marco Rampoldi.

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