Pantelleria è un’isola nel cuore del canale di Sicilia, al centro del Mediterraneo. Il nome viene dal tunisino, Bent-el-Rhia, figlia del vento, e le coste tunisine, e le sue luci, si vedono nelle giornate terse o al calar del sole. Infatti, Pantelleria è più vicina alla Tunisia di quanto non lo sia alla Sicilia, e tutto sull’isola è in dialogo con il mondo tunisino, a partire dallo zibibbo, vino liquoroso che viene coltivato in abbondanza sull’isola e che viene dal tunisino Zebib, uva passa.
È un’isola verdissima, dove arbusti e piante grasse di ogni tipo si riempiono dei colori dei loro fiori in primavera: viola, rosso, blu, giallo. È per questa vegetazione vulcanica, più che per il suo litorale roccioso, che d’estate si trasforma in una meta di turismo d’élite, di feste e aperitivi, eccessi e misticismo, come tra l’altro ha raccontato Luca Guadagnino in uno dei suoi primi film, A Bigger Splash.
In buona parte, l’isola potrebbe ormai definirsi una monocultura turistica, che la anima per due/tre mesi all’anno, in cui arrivano voli diretti da Roma e le vie del lungomare, abitate soltanto dal vento per nove mesi l’anno, si riempiono di camicie di lino, di vestiti lunghi, di macchine a noleggio. Nella mente dei più, quindi, l’unico viaggio verso Pantelleria è quello che viene da Nord, in un movimento che vede sempre di più l’Italia – e in particolare il Sud – come un luogo buono per le vacanze, ma per il resto fuori dal cuore della storia, che ha ormai spostato il suo centro altrove.
Eppure il Canale di Sicilia è al centro di una storia “minore”, di cui però non si smette mai di parlare, una storia che rivela la complicità delle istituzioni italiane ed europee nelle morti nel Mediterraneo, tra la Libia e Lampedusa. Anche in questa storia “minore”, però, Pantelleria non viene considerata come luogo di transito, di sbarchi, di speranze e di morte. Strano perché nella storia da qui sono passati Fenici, Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Angioini, Aragonesi, Borboni, fino agli Americani.
Nei cinque giorni che ho passato sull’isola per capire quali siano le reali condizioni migratorie del posto, ho scoperto una realtà invisibile. In cinque giorni, ci sono stati sei sbarchi, piccole imbarcazioni che arrivano nel cuore della notte o alle prime luci del giorno, a volte in totale autonomia, a volte scortate fino al porto dalla guardia costiera. Quando arrivano in autonomia, trovano riparo in alcune case o alberghi abbandonati sul litorale e la mattina dopo si presentano spontaneamente ai Carabinieri. Da Pantelleria non c’è via d’uscita, e le persone, per lo più tunisine, lo sanno.
Quello che non sanno è che, dopo essere state identificate dalle forze dell’ordine e da Frontex – l’agenzia europea che pattuglia il Mediterraneo e che, nel nome della sicurezza dei confini, si rende complice di morti e violenze -, verranno trasferite in un centro che le autorità definiscono di accoglienza, ma che nei fatti è un luogo di reclusione fatiscente, con un solo bagno e dove i telefoni cellulari vengono sequestrati. In questo posto, i viaggiatori invisibili rimangono pochi giorni, prima di essere trasferiti a Trapani dove poi vengono smistati come pacchi nei luoghi o dell’accoglienza o della detenzione.
Tutto il percorso dalla Tunisia alla Sicilia rimane dunque nell’invisibilità, soprattutto la permanenza sull’isola. Rinchiusi in quella che loro stessi hanno ribattezzato “la gabbia”, sono nascosti in un’area militare semi-abbandonata alla periferia della città di Pantelleria, tra un canile e degli edifici diroccati. In Sicilia vengono portati dal traghetto di linea, ma sono tenuti in una stanza separata, nascosta dal resto dei passeggeri.
A Pantelleria nessuno sa nulla del passaggio di queste persone: nel silenzio avviene una violenza che miete morti invisibili.