Come annunciato settimana scorsa, il tour di spettacoli è incominciato e procede spedito, tra tanti calorosi incontri con il pubblico e qualche problema tecnico sempre in agguato nelle date estive, ma quello è da mettere in conto. L’altra cosa bella di quando sei in tour è che, benché non si abbia proprio il tempo per fare anche il turista, però, magari, qualcosa in giro la si riesce a vedere. E siccome avevo una data a Cotignola (RA), ho fatto un giro all’Autodromo di Imola.
“Ma come, l’Autodromo di Imola!!! Ma ci sono robe molto più importanti in zona… il Mausoleo di Teodorico, il Tempio Malatestiano, la Tomba di Dante…” .
Ora, posto che io posso anda’ ‘ndo mi pare, vi spiego perché.
Ho una sorta di morbosa venerazione inconscia per Ayrton Senna. Che è venuta fuori dopo la sua morte ed è ancor più strana per il fatto che invece per gran parte della sua carriera, quando lui correva e io da piccolo guardavo la Formula 1, Ayrton mi stava antipatico: io tifavo per Alain (quando invece la sfida era con Mansell, ero per Ayrton perché ovviamente avevo già capito tutto della vita e mi ero imposto di tifare sempre per quello, tra i due contendenti, con la macchina più scarsa). Però poi, cominciando a far teatro, i primi spettacoli, e soprattutto grazie a certi maestri… un’ideuzza…
Certo, Ayrton non è solo – dicono – il più grande pilota di tutti i tempi, o uno di quelli sportivi, come Maradona o Cassius Clay, che son “troppo più” rispetto a quello che hanno rappresentato “semplicemente” in quanto campioni, seppur immensi (tanta roba non ci sta, nemmeno nelle pagine somme della storia dello sport). Ayrton è stato anche una sorta di coincidentia oppositorum: un computer umano nella precisione della messa a punto, e, al tempo stesso, un mistico e visionario asceta della velocità; una paranoica meticolosità nella preparazione della gara mescolata all’azzardo più arrischiato quando le luci diventavano verdi; un’attitudine da cannibale assatanato contro tutti in corsa dentro un animo profondamente religioso… e nella consapevolezza gentile di riscattare tanta poverissima gente del suo paese, che lo idolatrava quasi più degli eroi del calcio (lui, nato da una famiglia ricchissima), la certezza di incarnare una sorta di “diritto divino a vincere”.
Sono celebri le immagini degli istanti iniziali di quell’unica corsa in cui, diversamente da tutte le altre, il pilota brasiliano attese l’inizio sul rettilineo di partenza senza il casco, a volto scoperto, incurante di nascondere preoccupazioni e pensieri. Si sarebbero versati i fiumi di inchiostro sul fatto che fece questo proprio, e soltanto, prima della gara a lui fatale, quella di quel 1′ maggio 1994 a Imola (il giorno prima, in quel weekend che è letteralmente “l’11 Settembre della Formula 1”, c’era stato l’incidente di Ratzenberger). Una canzone di Lucio Dalla lo spiega molto bene: un Ayrton nell’abitacolo prima corrucciato, insofferente, spaesato… che poi chiude gli occhi e rivolge la testa al cielo, rasserenato. Come se Ayrton, in quei momenti, si stesse chiedendo, con le cinture della sua Williams che sembravano quelle di uno zaino troppo grande attaccate alle spalle d’un bambino imbronciato che a scuola non ci vuole andare, che senso avesse tutto ciò, e come se poi un senso, in qualche modo, lo si fosse trovato, un senso più alto. Come se sapesse quello che gli sarebbe accaduto. Sarebbe morto una ventina di minuti dopo.
Poi oggi, passando dal memoriale con la sua statua, lì all’Autodromo di Imola (fa strano perché Ayrton sembra avere il volto di Leopardi) un’intuizione: questo mix tra calcolo e cuore, questo ponte tra la gente e il divino, questa conciliare l’agonismo della competizione con l’empatia per i propri simili… è ciò in cui dovrebbe consistere l’essenza dell’arte dell’attore. Non c’entra niente? Forse.
(Ah sì, dimenticavo: anche qui, purtroppo, se sei ricco di famiglia… be’, ecco, questo aiuta molto…)