Breaking Dad

RICOMINCIO DA TRE (prima parte)

Come Troisi. Sì, perché non c’è modo migliore per ripartire con “Breaking Dad”: ricominciare da tre. Noi tre in viaggio, proprio nella città del grande Massimo.

Uno, due e tre, allora: tre biglietti del treno Milano-Napoli. E’ il nostro ultimo scampolo di vacanze: cinque giorni a esplorare, visitare, mangiare squisitezze per strada. Una piccola avventura, così l’abbiamo pensata, organizzando qualche cosa, ma non troppo per lasciarci il piacere della sorpresa e dell’improvvisazione. Della fantasia. Del resto andiamo a Napoli, mica a Zurigo.

 

GIORNO UNO

Il Frecciarossa è puntuale: partiamo, come previsto, alle 10.05 dalla stazione centrale di Milano. Sono quattro ore e mezzo, che è pochissimo se pensiamo a cosa fosse questo tragitto solo qualche anno fa (“Sì papà, ok, ai tuoi tempi ci si andava a cavallo? Ah ah ah!”). Ma non è proprio un niente, insomma bisogna inventarsi qualche cosa da fare, ché il paesaggio dal finestrino è come la musica balcanica secondo Elio: è bello e tutto quanto ma alla lunga… (ndr. per chi fosse interessato all’effetto – alla lunga –  della suddetta musica, vedere “Il complesso del Primo Maggio” di Elio e le Storie Tese, strofa 1).

Comunque, ingannato il tempo con giochini, musica e cibarie portate da casa, alle 15 e spiccioli siamo in piazza Garibaldi per il primo selfie davanti alla grande scritta sulla parete a vetrata della stazione centrale partenopea. Il nostro alloggio si trova in via Pignasecca (il nome mi piace da matti), nei Quartieri Spagnoli. Decidiamo di andarci a piedi, sono solo un paio di kilometri e viaggiamo leggeri: due piccoli trolley e uno zaino. Così cominciamo a prendere contatto con la città. E l’impatto è notevole per i ragazzi che per la prima volta ci mettono piede (io ci ero stato anni fa ma un po’ di corsa). Appena lasciata la grande via Toledo e inoltratici nei Quartieri (così li chiamano qui, senza Spagnoli) è tutto un: guarda là, guarda qua, no vabè, che figata…. I vicoli, stretti, che si arrampicano sui gradoni, i vicoli addobbati con i panni stesi, i motorini che sfrecciano con due o tre persone in sella, le bancarelle con le magliette di Maradona, gli stendini in strada, le signore con le sedie davanti alla porta aperta della loro piccola casa al piano terra. Fabri e Franci sono curiosi, osservano un po’ circospetti. Io osservo loro e ho già la sensazione di aver avuto una buona idea.

Incontriamo il nostro padrone di casa, un gentilissimo signore che fa a Fabri una sola raccomandazione, un po’ scherzando ma un po’ no. “Siete di Milano, no? E allora dite che siete dell’Inter o del Milan, come vi pare. Ma juventini, quello no. Mi raccomando.”

A questo punto abbiamo fame. Sotto casa, pochi metri alla sinistra del grande portone di ferro del nostro antico palazzo (“Vecchio, papà, è proprio vecchio…”), c’è un camion che vende: frittatine, pizza fritta, frittura di mare nel cartoccio (‘o cuoppo). Più altre svariate cose. Fritte, comunque. Più che street food è freet food.

Cose notevoli del nostro appartamento: la vista dal balcone che affaccia su un vicolo lungo e stretto che sembra ricostruito da Sorrentino; l’ascensore che bisogna metterci 20 centesimi per farlo partire; la scritta incisa sul muro dell’androne – chissà quanti decenni fa – “Gennaro ama M.” (decidiamo che è Maria); il cortile che dà sul mercato giornaliero di verdure, pesce e carabattole della nostra via.

 

GIORNO DUE

Il secondo giorno comincia con una colazione come si deve. A base di caffè, cappuccino e sfogliatella, riccia e frolla. Segue dibattito su quale sia più buona. Io scelgo la frolla, ai ragazzi piace di più la riccia, a Fabri ancora di più il cornetto al cioccolato. Il tutto guardando piazza del Plebiscito che si allarga maestosa alla nostra destra. La percorriamo in tutta la sua larghezza, sotto un cielo blu e una luce smagliante. Il colonnato è imponente, Fabri lo fotografa e ci si fa un selfie; ma invano tento di aver udienza quando, leggendo la nostra fedele Lonely Planet, provo a spiegarne le origini. Giusto, papà, che palle, me lo dico da solo. Va meglio con un tizio che vuole vendermi dei cornetti rossi e che io rimbalzo un po’ bruscamente pigliandomi un vaffa in napoletano stretto. Ecco, questa cosa piace molto: vedi, uno si ingegna e poi…

La tappa successiva è lui. Il Mare. Il mare luccicante che abbraccia, ricambiato, questa città meravigliosa. E’ proprio meravigliosa, siamo appena al secondo giorno ed è evidente a tutti e tre. Ce lo diciamo anche, ogni tanto. Scendiamo attraversando il rione di Chiaia. A un certo punto Fabri dice: “246”. Cosa? “Duecentoquarantasei motorini, li sto contando”. Poi ci fermiamo ad ascoltare due signori sulla sessantina che suonano una chitarra e un mandolino. La prima fa l’accompagnamento, il secondo la melodia, come osserva Franci con il suo esperto orecchio di chitarrista. Diamo un po’ di moneta ai due musicisti, che non sembrano farci molto caso, anche perché hanno gli occhi chiusi e sono completamente assorbiti dalla musica.

Arriviamo sul lungomare Caracciolo. C’è poca gente – siamo in agosto – qualcuno che corre, qualcuno porta il cane a passeggio. Tre ragazzini sfrecciano avanti e indietro con un monopattino elettrico, gridandosi cose che non capiamo. Uno è magro magro e biondo, con i capelli lunghi sul davanti. L’altro è grassoccio, con una pettinatura da calciatore e il ciuffo ossigenato. Il terzo è più piccolo, potrebbe essere il fratello minore di uno degli altri due. “Sono scugnizzi?”, chiede Fabri. Bè, non so non è che sia proprio una cosa precisa, è un modo di dire. Mi sembrano dei bravi ragazzi, in ogni caso. “Sì, secondo me sono scugnizzi”, conclude Fabri. Nel frattempo è saltato fuori un pallone e i tre si sono messi a giocare a cavallo del marciapiede.

La nostra meta, ora è la Mappatella. E’ una spiaggetta cittadina in direzione Mergellina, ma prima. Ci vanno i napoletani così, in pausa pranzo, o per passare qualche ora sul mare senza andare in vacanza. Si portano una sedia, una sdraio, qualcuno ha l’ombrellone, grandi borse, come quella da cui una signora estrae una teglia di parmigiana. Ci togliamo calze e scarpe ed entriamo in acqua anche noi fino alle ginocchia: si sta bene, ci rinfreschiamo un po’. Volano palloni e richiami di mamme a bambini che sguazzano.

 

[CONTINUA –  nella prossima puntata: Il Santo Maradona, la città sotterranea, quella bruciata dalla lava e la pizza del nostro amico Patrizio]   

  • Alessandro Principe

    Mi chiamo Alessandro. E, fin qui, nulla di strano. Già “Principe”, mi ha attirato centinaia di battutine, anche di perfetti sconosciuti. Faccio il giornalista, il chitarrista, il cuoco, lo scrittore, l’alpinista, il maratoneta, il biografo di Paul McCartney, il manager di Vasco Rossi e, mi pare, qualcos’altro. Cioè, in realtà faccio solo il giornalista, per davvero. Il resto più che altro è un’aspirazione. Si, bè, due libri li ho pubblicati sul serio, qualche corsetta la faccio. Ma Paul non mi risponde al telefono, lo devo ammettere. Ah, ci sarebbe anche un’altra cosa, quella sì. Ci sono due bambini che ogni giorno mi fanno dannare e divertire. Ecco, faccio il loro papà.

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