Quando un Paese è stato lacerato al suo interno da un conflitto violento, a un certo punto si pone la questione della riappacificazione.
È storico, è strutturale – e per fortuna: dall’amnistia di Togliatti in Italia alla Truth and Reconciliation Commission nel Sudafrica post razzista.
E _absit iniutia verbis_ nei paragoni, naturalmente: ogni schiumare della storia ha le sue peculiarità, le sue differenze.
Ma nel corso del 2022, se davvero sarà l’anno dell’uscita dalla pandemia, un Paese maturo, intelligente, pragmatico e non vendicativo deve chiedersi se e quando giungerà il tempo di una riconciliazione anche con quel 10 per cento scarso di italiani – comunque milioni di persone – che non hanno voluto partecipare allo sforzo collettivo per debellare il virus, vuoi per ignoranza, vuoi per paura, vuoi per convinzioni che personalmente considero al limite del pensiero magico.
Questa guerra civile delle anime, diciamo la verità, non è stata cosa gradevole nemmeno per chi l’ha combattuta dalla parte giusta.
Ha diviso famiglie e distrutto amicizie, tra l’altro.
Ha indebolito il sindacato, principale corpo intermedio del Paese, sempre più prezioso in una società atomizzata.
Ha mandato in vacca – speriamo provvisoriamente – qualsiasi riflessione seria su una questione vitale per il futuro come il capitalismo della sorveglianza.
Ma soprattutto ha funzionato come potentissima arma di distrazione di massa in un contesto socioeconomico di impoverimento diffuso e di allargamento (ulteriore!) di una forbice sociale che ormai grida vendetta a Dio, mentre perfino gli adolescenti muoiono sul lavoro e la marea avvelenata della precarietà si allarga su su fino agli ultra cinquantenni – e la sinistra partitica sfuma nel nulla della sua insignificanza, regalando ogni spazio d’istanza sociale a destre sempre più impresentabili (guardiamolo, l’angosciante laboratorio della Francia dove la politica è ormai solo terreno conteso tra neoliberisti, razzisti e neoliberisti razzisti).
Ecco, a proposito di destre. Stanno facendo, come sempre il loro mestiere, che è quello di dividere in fazioni contrapposte la base della piramide sociale, perché se ne possa giovare il vertice. È così, dal 1922 in avanti. Lo sarà ancora di più nel 2022. L’esclusione sociale è il loro pane. Non mi sembra una grande idea alimentarla.
C’è, ovviamente, una questione di gradualità, di tempi.
C’è l’esigenza di non far sentire preso in giro il 90 per cento di persone ragionevoli, che con questa razionalità hanno superato anche i loro umani dubbi, con quello che potrebbe sembrare un italianissimo condono, se affrettato e mal gestito.
E probabilmente c’è anche – ancora – una questione sanitaria: quando potremmo dire che la pandemia è davvero alle spalle, e che quindi un processo di riconciliazione è possibile? Basta la fine dello stato d’emergenza, fra poco più di un mese? Occorre aspettare una dichiarazione in questo senso dell’Oms? Bisogna prima vedere se si rialzerà l’allarme in autunno?
Ci sono tante cose intrecciate, insomma.
Che però forse, nell’interesse sociale, potremmo iniziare a sottoporre a dibattito e confronto pubblico.