Dove eravamo rimasti? Per chi ha avuto la gentilezza di seguirmi da anni, eravamo rimasti all’Espresso e al suo primo Piovono rane.
Rieccoci qui insieme, per chi è interessato.
Il blog è senz’altro uno strumento “vecchio” – vent’anni nella comunicazione digitale sono un’enormità – ma come la radio non è stata uccisa dalla tivù, così i blog conservano una forza e una profondità che vanno oltre il contenuto breve e immediato dei social network.
E anzi i social network sono vetrine di quelli che nacquero come “diari on line” e ora sono sempre di più articoli, seppure in soggettiva e opinati, insomma una forma di giornalismo autonoma e diversa da tutte le altre. Non è che il New York Times abbia rinunciato ai suoi perchè esiste Twitter.
E anche Radio Popolare, presidio di democrazia e di confronto, ha i suoi blog.
Ah, a proposito, non sono venuto a questa radio per uggia verso L’Espresso, sia chiaro. Ci ho passato ottimi e liberi anni. Anche se, non ho problemi a dirlo, il passaggio di proprietà alla FCA non mi ha fatto felice ed è stata una concausa della mia decisione, ammesso che questa cosa interessi a qualcuno.
Ma sono venuto qui soprattutto per amore di questa radio e della sua libertà. A Rp del resto ho iniziato pischello, nei primi anni 80, e qui mi piacerebbe dare un senso alla mia parabola professionale.
Quando ho messo piede per la prima volta nella sede di via Pasteur la radio era nata da pochi anni – era il 1976. E credo sia giusto ma soprattutto utile partire da lì, dalle radici, per provare a immaginare il futuro.
In quel periodo, quello in cui Radio Popolare è nata, si mescolavano infatti elementi diversi che avrebbero caratterizzato i decenni successivi e ci indicano dunque il “voi siete qui”, ci dicono il punto in cui ci troviamo e quindi la direzione verso cui andare.
Da un lato negli anni ’70 ci sono infatti i movimenti della sinistra, del cambiamento popolare ed egualitario, da cui (anche) questa radio è nata.
E ci sono le leggi o gli eventi che ne conseguono e che sono in gran parte rimasti patrimonio prezioso del paese.
Qualche esempio, per i più giovani: nel 1973, le 150 ore per il diritto allo studio. Stesso anno, legge sull’obiezione di coscienza al militare. 1974, il referendum sul divorzio. 1975, il nuovo diritto di famiglia. 1975, elezioni amministrative e nascita delle giunte di sinistra in molte grandi città tra cui Milano. 1976, legge sull’aborto. 1977, Dario Fo torna in Rai dopo la lunga censura. 1978, istituzione del Servizio sanitario nazionale. Sempre 1978, approvazione della legge Basaglia, che mette fine alla vergogna dei manicomi.
Per dirne solo alcuni, naturalmente, di eventi e di passi in avanti di quel periodo.
In quella stessa fase, però, in modo meno visibile, nel mondo succedono anche altre cose, di segno opposto o comunque molto diverso.
Ad esempio nel 1975 Margaret Thatcher prende la guida dei conservatori inglesi: quattro anni dopo diventerà premier del Regno Unito. Nel 1978 il governo golpista di Pinochet chiama a gestire l’economia del Cile i “Chicago boys”, gli allievi di Milton Friedman che iniziano a sperimentare in America Latina il modello economico che negli anni Ottanta verrà implementato in modo più ampio nel pianeta dalla stessa Thatcher e da Ronald Reagan.
Insomma la metà dei ’70 è anche il periodo in cui nasce quella che diventerà l’egemonia culturale della destra economica, il “There is No Alternative” di Thatcher, che dopo la caduta del Muro porterà alla teoria di Fukuyama secondo cui la storia era finita.
Nel 1976 questa radio nasce dunque all’interno di un’ondata di emancipazione popolare, diciamo pure di movimento verso sinistra, ma mentre già stanno germinando le ideologie e gli strumenti con cui il processo si sarebbe in pochi anni invertito, portando all’egemonia culturale liberista e alla lotta di classe dall’alto verso il basso, con il conseguente affermarsi del dominio di un capitalismo globale, dogmatico, insofferente. «Predatorio», lo chiama Saskia Sassen. E perfino «dinastico», come lo definisce Piketty.
Così dagli anni 80 in poi, nel mondo come in Italia, la destra economica ha giocato sempre in attacco.
E la sinistra?
La sinistra o si è arresa, emulando il suo avversario, oppure si è arroccata, giocando in difesa. Di fronte all’egemonia liberista alla sinistra non è rimasto che o alzare le braccia o tutelare strenuamente i diritti conquistati in passato – “giocare in difesa” appunto.
Per quattro decenni siamo stati, a sinistra, o emuli della destra o difensori delle conquiste del passato.
Credo che sia già abbastanza chiaro che cosa c’entra con tutto questo Radio Popolare.
Perché la radio che vorrei fare insieme a tutte e tutti voi non vuole giocare in difesa.
Del resto è il periodo storico che lo permette, forse addirittura lo impone. Perché i quarant’anni del “There is no alternative” thatcheriano sono naufragati in stessi, sono finiti.
E in questo scenario oggi Radio Popolare si trova di fronte compiti diversi dalla difesa del passato.
Rovesciando sulla destra le accuse che per oltre 40 anni hanno fatto a noi di sinistra: antistorico è il capitalismo che produce così tanta esclusione sociale e così tante disuguaglianze da divorare perfino se stesso, antistorica è la presunzione di scarnificare in modo infinito le risorse finite del nostro pianeta, antistoriche sono le discriminazioni di genere, di orientamento sessuale o di discendenza etnica, antistorico è il dogma “meno Stato più mercato”, antistorico è pensare di sacrificare al profitto privato la salute pubblica.
E antistoriche, oltre che inumane e grottesche, sono le risposte che alla crisi del capitalismo finanziario vengono proposte dalla destra sovranista che pensa di alzare i muri per tornare al presunto «tempo felice dei nostri nonni», come dice Salvini.
Naturalmente il proposito di contribuire con il proprio mattonicino a un nuovo rovesciamento dell’egemonia culturale apre una quantità infinite di domande. A cui Radio Popolare cercherà di dare risposte confrontandosi quotidianamente non solo con le disuguaglianze e con le esclusioni sociali ma con tutto il reale nella sua complessità: dalle strutture della nuova produzione molecolare e diffusa fino alle dinamiche del capitalismo della sorveglianza, dalla questione di genere a quella ambientale, per dire solo qualche macrotema evidente in cui è necessario immergere ogni giorno le teste e le mani.
Infine, e grazie a chi è arrivato a leggere fin qui.
In Italia dal punto di vista editoriale siamo un po’ tornati, purtroppo, agli anni Cinquanta, quando il il conformismo mediatico era di un’evidenza solare.
A chi non vuole arrendersi a questo panorama non restano molti spazi, ma questi tuttavia esistono.
Ed è lì che trovate un soggetto editoriale unico in Italia come Radio Popolare, che probabilmente ha inventato nel nostro Paese quello che oggi viene chiamato crowdfunding, cioè un sistema di sostegno economico da parte degli ascoltatori abbonati, azionisti e tesserati.
Gli abbonamenti e le altre forme di sostegno collettivo, insieme a uno statuto e a una governance cooperativa che evita il rischio di scalate esterne, garantiscono a Radio Popolare la possibilità di fare informazione (tra i pochissimi casi in Italia) senza intrecci e senza conflitti d’interessi.
E quanto più i tempi sono difficili per la pluralità di voci, tanto più è appassionante la sfida. Grazie a quegli “ascoltatori partecipi” che comprendono quanto sono preziose per tutta la società le testate emancipate da un grande editore in conflitto d’interessi. E sostengono collettivamente la nostra radio.