Ieri ho seguito le due manifestazioni no pass più importanti, Milano e Torino, con le rispettive voci di persone comuni e oratori dal palco.
Tra le cose che mi hanno colpito, l’accusa frequentissima agli altri di “avere paura”. Cioè di accettare il vaccino, e quindi il certificato verde, per paura personale, per tremebonda codardia di fronte al virus che loro invece affrontano petto in fuori, “meglio morti che schiavi”.
La paura. Che poi è normale e comprensibile sentimento umano: e immagino che sì, molte persone si siano vaccinate per avere meno probabilità di finire intubati, o morti. Penso a un paio di miei amici diabetici, ad esempio, che non vedevano l’ora di avere le due dosi. Can you blame them, seriamente?
Ma è proprio di molti anche l’approccio opposto, quello eroico, diciamo. Quello dell’orgogliosa chiusa di Robert Kennedy jr, all’Arco della Pace, ieri, “morirò nei miei stivali”. Ricordate “sine ullo metu”? Era una delle frasi più frequenti nelle versioni di latino: è l’idea del coraggio come valore, valore ben più nobile della paura, spesso indicata come codardia.
E fin qui, potrebbero essere scelte, approcci esistenziali: da una parte la paura e dall’altra il coraggio.
Le continue metafore belliche con cui è stato definita (appunto) la “guerra al virus” confermerebbero questo dualismo.
Il che, però, è solo un’ulteriore prova di come quelle metafore belliche fossero sbagliate.
Per tanti motivi.
In guerra, tanto per cominciare, il coraggioso difende gli altri: è la sua eroica resistenza, là in prima linea, a consentire al codardo in retrovia di scappare.
In questo caso – quello del Covid – è un po’ diverso: l’eroica resistenza del no vax mette in pericolo in primis lui, certo, ma aumenta il rischio anche per gli altri, che hanno comunque il 25-30 per cento di probabilità di infettarsi. Qui l’eroe non svolge alcuna funzione meritoria per gli altri, mi pare. Un po’ strano, come eroe.
E questa è già una prima asimmetria.
Ma ce n’è una seconda, forse un po’ più decisiva.
Una seconda che il no-vax non prende nemmeno in considerazione.
E cioè: ma se la mia paura non riguardasse soltanto me ma soprattutto gli altri, la società nel suo insieme?
Voglio dire: io, ad esempio, come under 60 (seppur per poco) senza alcuna malattia pregressa ho pochissime probabilità di finire in ospedale, ancor meno intubato, ancor meno nella tomba: così almeno dicono le statistiche, che mi danno più probabilità di schiattare nella gita in moto fuori porta.
Quindi, personalmente, potrei abbastanza fregarmene no?
Ma invece sì, ho paura: per tutto il resto.
Ho paura perché ho visto cosa ci succede attorno quando l’epidemia dilaga. I vecchi e i deboli portati via nei camion, la gente chiusa in casa, i pacchi alimentari, le malattie psichiche, la coda disperata al supermarket, l’azzeramento del reddito di chi non è un lavoratore dipendente, gli elicotteri della D’Urso che inseguono i runner, i bambini e i ragazzi privati della socialità, i negozi chiusi e le strade deserte. E tutto il resto, è storia di ieri anche se lo abbiamo rimosso.
Sì, ho paura di vivere ancora in un posto così. E francamente, non la trovo codardia. Così come non trovo eroico chi si crede tale ma non svolge alcun ruolo positivo per gli altri.