DisOrdine internazionale

Palestina: non ci sarà mai pace senza giustizia

E’ scandalosa la disinformazione con cui i media italiani – con poche eccezioni, “il Manifesto”, “Avvenire” – stanno raccontando la “guerra tra Israele e Hamas”. Le origini dello scontro, la continua violenza amministrativa e tutt’altro che cieca con la quale le autorità militari occupanti israeliane mortificano e umiliano i diritti e la dignità dei palestinesi dal 1967, sono poco più che un trascurabile inciso, quando pure vengono ricordate. Eppure anche questa escalation che produrrà come al solito l’implicita ratio di “100 vite palestinesi per ogni vittima israeliana” (già tragicamente vista applicare sul fonte orientale durante la II guerra mondiale) ha preso avvio dall’abuso di una parte sull’altra.

Una parte che ha tutti i mezzi per travestire da “leggi” i suoi soprusi e che gode della complicità oggettiva di una comunità internazionale che, come sempre, preferisce girarsi dall’altra parte e fingere di non vedere. Prima ci sono state le pretestuose limitazioni all’accesso alla Moschea di al Aqsa per evitare la diffusione del Covid-19, invocate dalle stesse autorità che hanno boicottato in tutti i modi la consegna di dosi di vaccino ai Palestinesi dei Territori Occupati e di Gaza. Poi la decisione di un tribunale israeliano – e quindi non competente per giurisdizione su territori che non fanno parte dello Stato di Israele – di espropriare delle proprie abitazioni famiglie palestinesi che dal 1948 vivono nei distretti di Sheik Jarrah e Siwan. Il cavillo “giuridico” è che in alcune di quelle abitazioni risiedevano – prima del 1948, prima della Naqba – delle famiglie ebraiche. Il “diritto al ritorno” è un principio che i Palestinesi invocano da sempre, alle loro case di Jaffa, di Gerico, di Haifa. Ma che tutti i governi di Tel Aviv hanno finora sempre respinto, invocando la difesa della natura “ebraica” dello Stato di Israele. Ora, però, si applicherebbe in maniera selettiva: vale per gli ebrei ma non per gli arabi, sulla base della legge del più forte – faccio quello che voglio perché posso farlo – e oltretutto per consentire l’insediamento di colonie illegittime di estremisti e fondamentalisti ebrei.

Che gli arabi di Gerusalemme abbiamo reagito a tanta vigliacca, lucida, violenza non era solo previsto. Era un effetto voluto e cercato da Benjamin Netanyahu e dalla destra suprematista ebraica, che pesa sempre di più all’interno dell’incerta e malandata democrazia israeliana. Una democrazia dell’apartheid, che punta sulla pulizia etnica da attuare nelle porzioni di terra palestinese illegalmente annessa con il sopruso della forza: talvolta travestito da “leggi”, talaltra apertamente esercitato con le bombe, le pallottole, il blocco di viveri e medicinali.

Netanyahu ha scelto questa via anche per oscurare e condizionare i processi e le inchieste per corruzione – cioè per aver rubato al suo stesso popolo – che lo riguardano, per mettere in difficoltà l’amministrazione Biden che (pur considerando Israele il suo alleato principale nella regione) non ha nessuna intenzione di avallare la deriva sempre più apertamente razzista e violenta di questo governo. Una “bella guerra” a Gaza, un facile “trionfo” corredato da una sfilza di cadaveri arabi da esibire con un gusto macabro sul quale neppure Vespasiano o Tito avrebbero potuto eccepire, e la solita rivendicazione del “diritto alla sicurezza di Israele” (la sola poteva nucleare del Medio Oriente), come se qualcuno minacciasse davvero più di estinzione lo Stato di Israele (a parte il regime di Tehran, che mi pare abbia ben altre preoccupazioni).

La verità è che le politiche di questa destra israeliana – sempre più inquietante e sempre più pericolosa – rappresentano la prima minaccia alla pace tanto per gli ebrei, quanto per gli arabi, quanto per l’intera regione del Medio Oriente. E’ singolare che l’idea di pace che ha in testa questa destra israeliana sia la stessa che i romani applicarono alla Palestina ai tempi di Tito e Vespasiano – la stessa peraltro che Roma imponeva a qualunque turbolenta provincia dalla Britannia all’Armenia – e che faceva dire “fanno il deserto e lo chiamano pace”, nelle parole da Tacito attribuite a un generale britanno.

Tutto calcolato: esattamente come il fatto che Hamas potesse reagire, mettendo in luce l’impotenza del’OLP  e così minando il residuo prestigio dell’Autorità Nazionale Palestinese. In modo tale da poter presentare al mondo i Palestinesi come pericolosi jahdisti e fanatici irragionevoli e giustificando la solita sproporzionata reazione militare nel nome di quella porcheria che è la “Global War on Terror”. Ma io faccio fatica a vedere un popolo più paziente di quello palestinese. Avessimo dovuto sopportare noi tutto quello che i Palestinesi hanno dovuto subire dal 1948, a che punto di esasperazione saremmo arrivati? Meno calcolato che i razzi di Hamas fossero in grado di perforare il sistema anti-missile Iron Dome. Ma anche queste innocenti vittime israeliane – comunque inaccettabili e ingiustificabili, tanto quanto quelle palestinesi – saranno usate per giustificare una strage ancora maggiore tra i Palestinesi. E per mettere in difficoltà l’amministrazione Biden. Negli Stati Uniti qualche voce inizia a levarsi per invocare una maggiore equità nei confronti della vicenda israelo-palestinese. Tra queste spicca Alexandria Ocasio-Cortez, che non perde occasione per dimostrarci che il contributo delle donne in politica non si può esaurire in qualche incarico e nelle quote rosa, ma nella capacità di apportare allo stato delle cose il peso di chi è stato discriminato da sempre e in tante parti del mondo continua a esserlo.

Purtroppo quello che succede in Palestina da decenni attesta fin tropo bene che essere stati per tanti secoli le vittime dei pregiudizi, delle discriminazioni e della violenza altrui non mette al riparo da ripetere gli stessi errori e le medesime nefandezze. La banalità del male è sempre in agguato se non si vigila costantemente contro il suo ripresentarsi, in forme diverse, a ruoli invertiti. Nessun passato assolve nessuno dai crimini presenti e futuri. Si onorano e si rispettano le tragedie di ogni popolo – tutte e di tutti – non consentendo ad alcun governo, ad alcuno Stato, di farsene scudo per compiere crimini incompatibili con la pur minima idea di diritti umani, di equità, di libertà ed uguaglianza. E’ anche in base al rispetto di questi principi che gli Stati, i governi, le culture politiche e i leader si guadagnano e mantengono la qualifica di “democratici”.

  • Vittorio Emanuele Parsi

    Insegna Relazioni Internazionali e Studi Strategici all’Università Cattolica a Milano, dove dirige l’ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali – e all’USI di Lugano. Si occupa da molti anni dello studio delle trasformazioni del sistema globale, al crocevia tra politica ed economia e tra ambito domestico e internazionale. Ultimi volumi: Vulnerabili: come la pandemia sta cambiando la politica e il mondo (2021), The Wrecking of the Liberal World Order (2021).

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    La transizione s’ha da fare, ma verso il militare. Di fronte al piano di riarmo europeo da 800 miliardi voluto dalla Presidente della Commissione Ue Von der Leyen, la transizione ecologica per la decarbonizzazione dell’economia slitta in secondo piano. Questo vale soprattutto per l’automotive: la conclamata crisi del settore – frutto della miopia dei produttori auto e delle scelte non incisive né coerenti della politica – è diventata ora l’occasione non per accelerare sull’elettrificazione dei trasporti, ma per promuovere la riconversione produttiva verso l’industria della difesa e delle armi. Il nono episodio del podcast “A qualcuno piace verde”, il Podcast di alleanza Clima Lavoro a cura di Massimo Alberti, racconta – a partire dal convegno “Mobilità sostenibile al lavoro” che si è tenuto a Torino il 13-14 marzo 2025 – il passaggio in Europa e in Italia dal Green Deal al War Deal. Con l’automotive, appunto, come snodo centrale.

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