Eccoci a tirar le somme di questa ricerca che spero non abbia smerigliato le gonadi negli episodi precedenti. Anche perché ora potete vedere chiaramente, quello che intendevo: non ho certezze da tirare fuori, niente verità assolute. In fondo la grammatica la odiamo da piccoli perché ci sembra ci imponga leggi ferree, da imparare noiosamente a memoria; e da grandi per il motivo esattamente contrario, perché la sua più moderna istanza descrittiva non ci risolve certi dubbi per dirimere i quali a lei ci rivolgiamo come fosse oracolo… E allora? Solo brandelli di sensazioni andrò a elencare, frutti di una ricerca undicenne e ingenua, fuori dalle righe dei social e permeata – senza che nessunə si offenda – di vitalità innocente:
1) sono statisticamente più spesso gli uomini che tendono a declinare i sostantivi “importanti” al femminile (“sindaca”, “la presidente”) rispetto alle donne (le quali preferiscono “sindaco”, “il presidente”: aspetto evidente dal confronto in domande poste in parallelo, sulla stessa professione, a mamma e papà, a mo’ di “Intervista doppia”). Prima domanda aperta, che semino qui: dipende solo dal babbo che vuole risultare più “liberal” agli occhi della mamma? O magari, meno simpaticamente (e forse il fulcro vero di tutta la questione è lì) non è che ciò potrebbe dipendere dal fatto che le donne, per pensare di aver raggiunto la parità di genere, abbiani giudicato giusto chiamarsi con il nome di una certa “professione di rango” declinato al maschile? Come a voler dire “anch’io, donna, ci sono arrivata! Ho preso anch’io quel ruolo che prima era solo tuo!” . Certo, è stato questo un indirizzo linguistico importante della battaglia femminista, negli anni ’70 e ’80: ma ha fatto il suo tempo, perchè tale scelta sottendeva che per le donne, nel momemto in cui raggiungevano posizioni apicali (oggi, sempre più spesso), era importante, con la declinazione al maschile, che nascondessero il fatto di essere donne. E invece il segno linguistico della vera parità è proprio, in maniera pù profonda, la declinazione al femminile.
2) spesso ‘sti/e ragazzetti/e dimostrano un’apertura, una sana curiosità e una assenza di pregiudizi che sarebbe bello conservare crescendo. Come per tante altre cose;
3) credo sia utile far comprendere alcuni meccanismi della lingua, relativi a come essa di sviluppa e cambia. Certo, i problemi sono anche altri, ma le battaglie sociali sui diritti mica sono come “i migliori amici” che, come dicono i nostri, “se ne deve scegliere solo uno alla volta”; per cui non è che se uno si occupa della lingua non si può occupare anche della parificazione dei diritti salariali.
4) forse la lingua non accompagnerà o favorirà i mutamenti sociali (ne siamo proprio certi?), ma sicuramente li riflette, e che chiamare le cose con il loro nome, come spiegano le studiose citate all’inizio, “aiuta a vederle meglio”. E se chiamare le donne con nome di professione declinato al femminile “non cambia certo la situazione della donna”, figuriamoci quanto aiuta a cambiarla mantenere la declinazione al maschile;
5) desta comunque perplessità, se non dispiacere, che siano più spesso le donne a considerare il nome declinato al maschile come di un grado superiore rispetto allo stesso nome declinato al femminile;
6) dobbiamo però saper ascoltare anche le comprensibili resistenze di chi avverte un ragionevole senso di titubanza davanti a tutti questi cambiamenti: e certo mica dipende sempre solo da ragioni socioculturali connesse a sessismo, patriarcato e androcentrismo; se non vogliamo chiamare in causa il “disallineamento evolutivo”, come spiega bene Annamaria Testa, diamo atto che esiste però, almeno, una sorta di “forza di gravità” delle parole, un vettore entropico che tenderebbe, per abitudine, a farle tornare sempre lì: un misto di comprensibile inerzia, deprecabile pigrizia e vischiosa praticità, “perché se no poi, prof, dobbiamo di nuovo cambiare sempre tutto il libro di grammatica?”. Senza contare che l’eccessiva preoccupazione nel tentativo di non “ferire nessuno” (da parte di chi ha a cuore la questione, ovvio) potrebbe portare tante donne ma soprattutto uomini, a, oddio, “non saper più come chiamare” le donne: “e se lei preferisce avvocato?”. Una paralisi linguistica che è il caso di tenere presente, nel calderone… Perché appunto, non se ne esce, poi: più studi la questione e più ti ci blocchi…
Però, allora, fatto trenta si fa trentuno: ho poi provato a parlare in classe anche dello “ə”, lo schwa, la soluzione proposta dalla sociolinguista Vera Gheno nel caso della concordanza di nomi e aggettivi plurali riferiti a moltitudini miste, sia maschili che femminili (e trattandosi di classe di undicenni, non ho ritenuto opportuno aggiungere che la soluzione potrebbe essere adottata anche per riferirsi a persone sessualmente “non binarie”). La cosa è stata accolta con curiosità: più entusiasmo da parte delle alunne, qualche scetticismo tra gli alunni. Non credo che potrei accettarlo in un tema, ma è interessante constatare come la loro mente viaggi, parta, crei analogie: e vedere che, dopo aver acquisito il meccanismo, lo applicano anche in campi per cui non è stato pensato, come gli oggetti con il solo genere grammaticale: “Ma allora prof, posso scrivere anche che “Il gelato e la granita sono squisitə?”
Ecco, non ho la più pallida idea di come andrà a finire. Vedremo, e forse il bello è proprio il fatto che ci siamo ancora in mezzo, questo… non uscirne. Più importante tenere vivo il dibattito, restare ricettivi e aperti, sperimentare modalità che possano suggerire un uso del linguaggio più rispondente alle esigenze di una società indirizzata verso la pacifica convivenza delle nostre diverse unicità. Essere consapevoli e parlarne è già un gran passo avanti rispetto ad alcuni anni fa: si può farlo già nelle scuole, e quasi giocando (non sono certo il primo ad averci portato la questione: guardate qui la pagina di “Scosse in classe”, oltre al sito di “Italiano Inclusivo”).
Ma almeno una certezza, in chiusura: la nostra professoressa di matematica, almeno lei, ha accettato la proposta di farsi chiamare per scherzo dagli alunni, solo nella nostra classe, “Professora”. Era uno dei cavalli di battaglia di Alma Sabatini, che sconsigliava l’adozione, nelle sue “Raccomandazioni…” del suffisso “-essa”, e preferiva, anche per i nomi maschili terminanti per “-ore”, l’uscita al femminile in “-ora”, perché, a partire dalla fine ‘800, tale suffisso si era caricato di una connotazione quasi dispregiativa e sarcastica (era nato a indicare non una donna titolare di una certa professione di rango, ma la moglie di un uomo che questa professione svolgeva… insomma, “dottoressa” significava “moglie del dottore che se la tira come fosse il marito”). Ora i termini “dottoressa” e “professoressa” si sono acclimatati e hanno completamente perso tale accezione negativa o ironica (l’ho spiegato tutto ciò agli alunnə): ma anche soltanto per gettare qualche coriandolo di linguistica in pillole, almeno sono riuscito a incarnare un momento storicamente così importante di questo dibattito. Almeno questo…
Perché non si può fare altro. Perché se oh, da sto discorso, non se ne esce… allora stiamoci!