La settimana scorsa si parlava del brodo di coltura in cui è nata l’idea della mia ricerca sul sessismo linguistico: cosa arriva in una prima media di tutto questo discutere? Ho preso al volo la richiesta di “declinare la progettazione didattica secondo compiti di realtà per proporre esperienze d’apprendimento coinvolgenti, autentiche e significative” (qualunque cosa significhi) e ci ho collegato tutto il suddetto dibattito (avvocato, signora avvocato, avvocata, avvocatessa o più semplicemente legale che taglia la testa al toro). Obiettivo? Cogliere due piccioni con una fava: capire in modo esperienziale se qualcosina di un tema così spinoso e “adulto” – al tempo stesso sia tecnico che divisivo -, potesse arrivare fino ai giovanissimi virgulti. Più, terzo piccione: dare un senso concreto al nuovo insegnamento di Educazione Civica, “Grammatica e Inclusione”, sulla carta, la teoria del vapor acqueo applicata ai buchi del groviera.
Con questa premessa, parte il lavoro. Prima scoperta del pero fatta dagli alunni: l’italiano è una lingua che marca il genere grammaticale, il neutro non esiste e i sostantivi possono essere solo maschili o femminili. Alcuni possono esserlo solo dal punto di vista grammaticale, come oggetti, frutti e verdure (“il cucchiaio”, “la forchetta” che infatti non hanno sesso… anche se i più zuzzurelloni di voi obietteranno che “pisello” è sempre maschile, e “patata” è sempre femminile), altri anche dal punto di vista biologico/naturale, se riferiti a persone o animali (“il sarto”, “la parrucchiera”, “la gatta”). Seconda scoperta del pero: non c’è una ragione linguisticamente valida che spieghi perché non dovrebbe essere così per tutti i nomi, quindi anche per i nomi di professione, i “nomina agentis”, declinati al femminile (avvocata, per capirci).
Ora, non certo per complicarci la vita, ma proprio perché la faccenda è di suo non semplicissima, ripropongo pari pari la lezioncina che ho spiegato alla scolaresca, perché va be’ la didattica laboratoriale, ma questa qui è proprio la roba che sarebbe dovuta entrar nella zucca degli alunni, se no che l’abbiamo fatta a fare, tutta sta cosa?
Dicevo, dal punto di vista morfologico, per formare il femminile, abbiamo quattro tipi di sostantivi:
1) i sostantivi mobili, che formano il femminile semplicemente modificando la desinenza finale e mantenendo fissa la radice (caso più comune: la –o, marca del maschile, che diventa –a, marca del femminile: “gatto/gatta”, “maestro/maestra”, ma anche “attore/attrice”);
2) i sostantivi indipendenti, o di genere fisso, che al femminile presentano una forma completamente diversa dal maschile anche nella radice: “maschio/femmina”, “fratello/sorella”, “padre/madre”;
3) i sostantivi di genere comune, o – fatemela tirare un po’- ambigeneri, o epiceni, che cioè sono uguali al maschile e al femminile e cambiano solo l’articolo: “il cantante/la cantante”; “il dirigente/la dirigente”. E che talvolta formano il plurale con desinenze diverse al maschile e femminile, ad es. “i pianisti/le pianiste”;
4) i sostantivi di genere promiscuo, che hanno una sola delle due forme. Situazione che vale spesso per gli animali, con un genere grammaticale definito (“la tigre”, “il ghepardo”), cui può non corrispondere un genere biologico, quindi da specificare con l’aggiunta di un modificatore (“la femmina di leopardo”, “la tigre maschio”); ma che può essere estesa anche ad alcuni nomi riferiti a persone, come “la guardia”, “il soprano”, “il pedone”, “la vittima”. Ecco, diversamente dai primi tre casi, in cui il genere grammaticale e biologico coincidono, qui questa coincidenza si perde per mere questioni grammaticali. “Cioè, che vor dì’?” Che il termine di volta in volta è usato sia per uomini che per donne, anche se alcuni mestieri sono svolti in genere dalle persone di un certo sesso (spesso uomini per “guardia”, sempre donne per “soprano”, ecc.)
Riassumendo, checché ne abbia detto Beatrice Venezi a Sanremo, se la tua professione è indicata da un nome declinabile, mobile, primo gruppo, mettila come vuoi ma sei una “Direttrice d’orchestra” e non c’è niente di spregiativo nell’usare il femminile invece del maschile corrispondente (“Direttore”). Insomma, ok, fatto salvo il fatto che la Venezi può farsi chiamare come vuole e che a volte il genere grammaticale non definisce il genere biologico, quando però lo definisce… ecco, andrebbe usato.
Comunque, chiarito questo, abbiamo iniziato il lavoro sul campo. Sì, perché allora avevo la speranza che se ne potesse uscire, che avrei sciolto il nodo gordiano… e insomma, ho fatto questo:
– ho fornito agli alunni un elenco di professioni: “avvocato, ministro, sindaco, assessore, ingegnere, dirigente, magistrato, presidente, direttore, procuratore, ispettore, deputato, architetto… e poi: sarto, parrucchiere, maestro, cameriere, infermiere, cuoco”,
– ho chiesto loro di fare questa domanda in famiglia (parenti, amici, conoscenti): “Chiedete agli intervistati: preferite usare questi sostantivi di professioni, SE RIFERITI A DONNE, come fossero di genere mobile, quindi declinati al femminile (ad esempio, per “sindaco”: “la sindaca Virginia Raggi”); oppure di genere promiscuo (“il sindaco Virginia Raggi”); oppure di genere comune (“la sindaco Virginia Raggi”)? E, specie nel caso non si preferisse la declinazione al femminile (quindi primo caso: non il genere mobile, ma il genere promiscuo o comune), chiedete: perché?”
E come è andata? Se non vi scoccia, ve lo dico la prossima volta, che io intanto sono in scena al Teatro della Cooperativa fino al 30 maggio con la “La Scuola non serve a nulla 2.0” (…venite? quasi tutto pieno, ma vedete un po’ voi…)