Alla fine dei conti, purtroppo resto con quell’idea lì: non se ne esce. Ma spiego com’è cominciata.
A gennaio, ancora in presenza, avevo lanciato un progettino in classe con i miei pischellini: ragionare con loro sul problema del genere. Capire dove cominciamo a usare male le parole, e magari anche perché. E qui comincia la mia “Tetralogia del Sessismo linguistico alle Scuole Medie”: all’inizio, anni fa, solo un mio vecchio “cavillo di battaglia”, ma poi… poi è arrivato il dibattito sull’App Immuni con l’uomo professionista e la donna casalinga. Poi Beatrice Venezi che si fa chiamare “direttore d’orchestra” a Sanremo. Poi il catcalling. Poi Pio&Amedeo, il bacio a Biancaneve non consenziente e Rula Jebreal che non va a Propaganda Live perché è l’unica donna ospite (peccato: quanto sarebbe stato più efficace il suo messaggio se invece ci fosse andata e avesse affermato: “Vedete? Io, qui, sul palco della trasmissione oggettivamente più sensibile a queste tematiche legate al sessismo, alla discriminazione delle persone LGBTQ+ di tutto il palinsesto televisivo italiano, ecco, comunque, sono l’unica ospite donna! Quanta strada c’è ancora da fare?”). Insomma, ho capito che a gennaio avevo avuto una buona idea: portare in una scuola media l’antico dibattito sui generi e sulle professioni. Avvocato Maria Rossi? Avvocata Maria Rossi? O avvocatessa (sempre Maria Rossi, si capisce)? E la Ministro o la Ministra Cartabia? E il Sindaco/Sindaca Raggi? E via via tutto il resto… anche se poi in realtà è da tempo che si dibatte di “soffitti di cristallo”, di linguaggio inclusivo, in opposizione all’uso sessista, androcentrico, patriarcale (magari inconsapevole), di una lingua che non riflette abbastanza i mutamenti della società in cui sempre più donne raggiungono professioni di prestigio.
Ecco, ma come nota – fra i tanti – il Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, quello del dare un genere alle professioni è uno dei due temi (l’altro è la presunta “invasione degli anglismi”) capaci di uscire dalla ristretta cerchia degli specialisti di linguistica per diventare politicizzato, polarizzato e spesso ignorantemente pop; quando non proprio “ho due dita, ho una tastiera, dico la mia ad mentula canis”, meglio se ne so poco, meglio ancora se l’opinione non è richiesta. Insomma un pessimo contributo all’avanzamento della conoscenza, ma nondimeno termometro sensibile per misurare la temperatura della faccenda.
Ma se ai più può sembrare un tema semplice, per chi lo vuole studiare sul serio semplice non è per nulla. Anche solo a cercare soluzioni all’annoso problema del genere. Si va dal “maschile non marcato” (“L’Uomo ha distrutto la natura”), al “maschile inclusivo sovraesteso” (“Gli studenti entrino uno alla volta”); dalla concordanza al maschile plurale di nomi o aggettivi riferiti a gruppi composti da donne e uomini (“Bisogna difendere i diritti dei lavoratori”), alla declinazione al femminile di professioni riferite a donne (da quelle ormai assimilate, la panettiera, la maestra, a quelle che ci suonano strane, l’avvocata, la ministra). E ancora, dall’asterisco indeterminativo (ministr*, avvocat*), allo ə (lo schwa, quel segno /ə/, appunto, che ogni tanto si trova in qualche pagina scritta e che si pronuncia a metà tra a e e, e che potete trovare nell’IPA, l’International Phonetic Alphabet, non la birra).
Per chi voglia capirci qualcosa, è imprescindibile secondo me affidarsi alla “triade” Sabatini-Robustelli-Gheno, tre studios*, tre espertə, tre donne il cui lavoro può essere preso come modello di lettura diacronica dell’appassionante “questione della lingua sessista” in Italia. E più in dettaglio: le “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, poi confluite nel celebre “Il Sessismo nella lingua italiana” (1987) di Alma Sabatini; le “Linee Guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo” nato contestualmente al “Progetto genere e Linguaggio” (2012) di Cecilia Robustelli, quasi un up-grade, questo, del lavoro della Sabatini; e “Femminili singolari” (2019) di Vera Gheno. Tutte cose da assaggiare un po’ prima di lanciare le dita e sminchionare sulla tastiera (o smonologare a vanvera su una televisione in prima serata).
E mica finisce qui: si farebbe torto a non citare tantissime raccomandazioni emanate in questi anni nell’amministrazione pubblica per un uso non sessista della lingua, ma faremmo notte. Sicchè io, pacchianissimo e ignorante docente di “Lettere e Cartoline”, qual sono, mi sono semplicemente chiesto:
“Di tutta ‘sta roba qua, cosa potrei raccontare nell’ora di Grammatica di una Prima di Scuola Secondaria di I° grado (diciamo: la prima media), con ragazzi undicenni, in una scuola a utenza media/medio alta della semiperiferia milanese?”
Ecco, io non mi sono limitato a chiedermelo… purtroppo sono andato avanti. E che è successo? Be’, intanto, da venerdì 21 maggio sono al Teatro della Cooperativa con il mio “LA SCUOLA NON SERVE A NULLA 2.0: dalla Buona Scuola alla Dad”. Il seguito della storia invece ve lo racconto la settimana prossima…