Mentre Mattarella parlava, giovedì a Montecitorio, sia i i parlamentari sia i giornalisti erano lì con l’orecchio teso a carpire qualsiasi possibile accenno su Draghi, sugli equilibri politici contingenti, su quelli che ci saranno dopo le prossime elezioni: a cui sia i politici sia i giornalisti guardano come il punto più lontano del loro orizzonte.
Ma se loro pensavano a questo, il presidente rieletto invece guardava molto oltre. Molto oltre non in termini temporali, ma di profondità.
Perché Mattarella ha posto la questione gigantesca del divorzio tra politica e potere, quella a cui Zygmunt Bauman ha dedicato l’ultima parte della sua vita.
La politica ha sempre meno potere, circondata com’è dall’economia e dalla finanza.
E avendo sempre meno potere, esercita sempre meno il suo ruolo di rappresentanza di interessi o ideali dei cittadini.
Quindi al divorzio tra politica e potere ne segue un altro, quello tra politica e cittadini: che alla politica non credono più, come mezzo di realizzazione dei propri interessi o dei propri ideali.
“Di fronte alle disuguaglianze, alla precarietà, al disagio sociale, la politica non fa nulla, sottomessa ai poteri economici internazionali che cercano di imporsi sulle democrazie”, testuale.
Un tema gigantesco, quello affrontato dal Capo dello stato, forse il tema per eccellenza del nostro tempo.
E Mattarella ha detto alla politica che deve avere – sempre testuale – “la forza e l’orgoglio” per proporsi come mezzo di realizzazione della democrazia, di “inveramento” della democrazia. E che senza questo ruolo, i cittadini, specie quelli più deboli, restano indifesi, soli.
Non è chiaro se i politici in aula questo lo abbiano capito.
Ma non è nemmeno chiaro se poi vogliono davvero provarci, a svolgere il compito chiesto da Mattarella.
Quei continui applausi a interromperlo, tuttavia, sembravano quasi apotropaici. E non promettevano nulla di buono.