Nel giorno in cui il non-tipico-bianco-ma-comunque-italiano Marcell Jakobs compie l’impresa del primo Oro Olimpico italiano nei 100 metri, mi è tornato alla mente, complice un episodio di ieri sera, un ghiribizzo che da qualche parte giaceva sopito come sassolino nella scarpa della mia capoccia, e che ha a che fare con questioni linguistiche di cui, per lavoro in classe e per uno spettacolo a teatro, mi sono interessato.
Dunque, la faccenda sta così. Da tempo, molti studiosi (ma anche parlanti comuni) discutono su come adoperare un linguaggio più inclusivo e rispettoso di tutte le modalità d’essere e le diverse inclinazioni che si riscontrano nella società, in varie direttrici: identità di genere, orientamento sessuale, distinzioni etniche e geografiche. Per qualcuno, a volte, questa nuova sensibilità del politically correct ha raggiunto livelli quasi parossistici, come per la questione del “jack maschio” e “jack femmina” (e meno male che non se la sono presa pure con l’adattatore chiaramente trasgender non binario…); però, come recita un ormai abusato adagio, se “le parole sono importanti”, adoperarle in maniera più attenta potrebbe forse contribuire a rendere il mondo un posto un po’ più gentile.
Alla luce di ciò, credo sia inconcepibile e indecente che una celebre canzone (composta, certo, decenni fa, quando mancava questo tipo di attenzione), possa essere cantata oggi in concerti, balere e karaoke ancora con le stesse parole del testo originale; nonostante credo tutti siamo, con la sensibilità di oggi, oggettivamente d’accordo sul fatto che siano insopportabilmente offensive. Ecco, proprio qui dove davvero il testo si sarebbe potuto cambiare senza che nessuno potesse sentirsi in diritto di chiosare “Ma dai, e non si può più dire niente!” o “Questa cosa ci sta sfuggendo di mano”, ecco, qui non si è intervenuti, no, quasi che il dibattito non fosse mai esistito.
Come forse avrete intuito, sto parlando della canzone di Edoardo Vianello “I Watussi” (da un Chiringuito lontano su una spiaggia salentina me ne arrivava giusto ieri notte l’eco, in forma di coro scanzonato). Sì, “I Watussi”, quella di “Nel continente nero paraponzi ponzi po, alle falde del Kilimangiaro, paraponzi ponzi po”, ecco lì ci sono parole, ripetute più volte, oggettivamente ingiuriose non solo alle orecchie degli specialisti della questione. Anzi, a ben guardare si scopre che la canzone in vari punti sembra essere addirittura un inno alla discriminazione, per via di cliché e terminologia ai confini de, o chiaramente oltre, l’insulto.
Mi riferisco in primis ovviamente a “Nel continente nero”, sineddoche sul colore della pelle indebita in quanto riduttiva, come se un intero miliardo di persone si potesse identificare in un’unica connotazione cromatica. E i Berberi? E gli Orange? Proseguendo, immagino che tutti pensiate ovviamente al “paraponzi ponzi po”, che pare davvero frutto del più becero retaggio coloniale: un coretto che tradisce un velato scopo canzonatorio, come a dire che queste popolazioni non sono capaci di produrre nemmeno una minima stringa testuale con qualche parola sensata, ma solo ritornelli infantili e confusamente onomatopeici… siamo a un passo dal “Zì Badrone”. Poi c’è, inevitabilmente, da rendere conto del “Ogni tre passi, facciamo sei metri”, altro tipico pregiudizio antropologico occidentale, come se questi popoli solo quello possono fare di notevole: camminare di buona lena, al massimo correre come il nostro Jakobs, e nient’altro… soltanto un’attività fisica è venuta in mente, non certo “Ogni tre passi, ogni tre passi, terminiamo con successo un esperimento di fisica quantistica nel nostro laboratorio di ricerca”, che, come sentite, suonerebbe anche bene. É chiaro che chi scrive esclude la possibilità di guardare a queste persone nella loro capacità di autonoma affermazione intellettuale. Al massimo, si concede loro di aver “inventato tanti balli”, ed è un miracolo che ci abbiano risparmiato il “…e hanno il ritmo nel sangue”.
Per contro, però, “Siamo i Watussi, gli altissimi…”, “Quello più basso è alto due metri”: ecco, questo baldanzoso rimarcare l’altezza della popolazione non potrebbe essere derubricabile come un indiretto quanto spocchioso atto di body shaming verso persone che alte non sono? Ancora, in “Noi siamo quelli che nell’equatore vediamo per primi la luce del sole”: come non cogliere in questo verso qualcosa di stucchevolmente iperbolico, che esclude tutti gli ipovedenti o videolesi? Ma anche chi non ha problemi di vista e però lì non ci vive, come potrà non sentirsi offeso da questa sorta di primogenitura autoconferitasi, questo “noi sì, e voi no?”.
Ma il peggio deve ancora arrivare. In “Alle giraffe guardiamo negli occhi, agli elefanti parliamo negli orecchi” si arriva addirittura al pregiudizio specista, quello dell’insopportabile sopraffazione dell’uomo che domina sull’animale; anzi lo va a infastidire, guardando negli occhi la giraffa o prendendo in giro l’elefante per le sue orecchie: qui, si sommano specismo più bodyshaming! E poi la vetta inarrivabile della sovercheria linguistica, forse la più grave, cui so che state pensando dall’inizio dell’articolo e che davvero non può essere taciuta, nel suo essere chiaro segno della volontà di dominazione: “Quando le donne stringiamo sul cuore noi con le stelle parliamo d’amore” ! Se non è maschilismo questo, signori! Qui è difficile classificare queste espressioni come semplici residui di una visione androcentrica e patriarcale, no; qui il maschilismo è esibito in maniera trionfante, visto che il maschio possiede letteralmente la donna che, dal canto suo, è talmente oggettificata e subalterna da non essere nemmeno ritenuta un interlocutore degno di scambio verbale: “mentre che ti stringo, piuttosto parlo con le stelle!”
Per cui, davvero, cerchiamo di cambiare il testo di questa canzone, o suoneranno come ipocrite tutte le celebrazioni di atleti di colore che portano in dote medaglie sonanti al nostro palmares olimpico…