Era ora!
Finalmente sono tornato su un palco e la mia gioia faceva sponda con quella degli spettatori. Non per lo spettacolo in sé (“LA SCUOLA NON SERVE A NULLA 2.0”, dal 20 al 31 maggio al Teatro della Cooperativa, quello che dà il nome anche questo blog e di cui vi segnalerò prossime date estive), ma per il fatto di essere lì insieme, finalmente. E durante queste repliche mi sono accorto che da un po’ (già da quelle sette/otto repliche della falsa partenza dell’estate scorsa, in verità), mi frullava in zucca un pensiero.
E il pensiero era: ma come diavolo lo creo quel minimo di amalgama che mi piace tanto, mi diverte e mi serve, con questo pubblico spalmato e distante, a macchia di leopardo? Come diavolo instauro un dialogo, un rapporto che, per chi viene dal cabaret, sono costituiti dal bello della diretta, dalla quarta parete che se ne va e dall’odore delle persone? E occhio, non intendo solo l’amalgama tra me e loro: più importante ancora è quello TRA di loro, tra gli spettatori che danno il massimo, a noi che facciamo i cretini sul palco, quando respirano insieme, quando si contagiano, quando la risata o la tensione diventano collettive.
Perché soprattutto di contagio fisico vive la risata: “rido perché stiamo ridendo” conta di più di “rido perché mi hai fatto ridere”. Insomma, rido sulla fiducia degli altri che ridono. Ed è per questo motivo che l’unione rimescolata degli spettatori è fondamentale per la riuscita di uno spettacolo; e se lo spettacolo funziona, anche questa magia funziona: persone sedute fianco a fianco, seppur sconosciuti, si integrano, si trasmettono emozioni, si assimilano in un’attitudine comune. Tanto comunque nella testa dell’attore, al pubblico in sala accade già, e spesso, di fondersi in una sorta di unico spettatore-modello, quasi una media matematica, un fruitore-tipo di quella sera lì; e su questo “fantasma” (che non esiste, ma a cui l’attore affida idealmente l’incarico di sintetizzare le caratteristiche del pubblico), l’attore prende, ogni sera in modo unico e non ripetibile, le misure per la gestione dell’andamento dello spettacolo: rallenta, accellera, alleggerisce sulla base dei comportamenti di questo inesistente spettatore medio.
Ma adesso, con una situazione in cui bastano 50 persone sparse a fare sold-out? Be’, ‘sto amalgama se ne va un po’ a ramengo. Delle volte meglio 30 spettatori ammassati sotto palco (tanto alla fine con un occhio di bue piantato negli occhi quelli riesci a vedere) che 1000 distribuiti all’Arena di Verona. Il rischio di contagio medico finisce col produrre l’assenza di contagio sociale. Quindi, tu sul palco non senti IL pubblico, senti Tizio e Caio che ridono, Sempronio seduto lì a sinistra che non lo fa, Mimì che mugugna e Cocò che dorme. Percepisci lo sghignazzo della signora Felicita, sempre cacofonico e fuori tempo, la rassegnazione muta del dottor Procopio e i commenti negativi del signor Bonaventura, magari buzzurro e totalmente prevenuto.
E infatti, a voler esser più profondi, le ricadute di queste disposizioni logistico-sanitarie sono anche di tipo filosofico-sociali: l’attore, con il pubblico, non si trova più nella situazione “IO+VOI”, ma in quella “IO+TU+TU+TU e TU… che va be’, siete congiunti fidanzati quindi seduti vicini ecc. ”. Theatron, in greco, è quel posto dove “ci si osserva” (theaomai, in greco antico significava, appunto, “guardare”) e ci si ascolta. O meglio, dove “l’attore guarda e ascolta il pubblico che lo guarda e lo ascolta”; e tutti insieme ci si fonde, si entra in relazione di comunità. Relazione, appunto: ecco, da un punto di vista di mera percezione acustica, almeno nei piccoli spazi, il senso di comunità ancora non si riesce ad avvertire. Come se perdurasse ancora, coriacea, quella monadizzazione sociale cui questi tempi ci hanno costretto. Ancora isolati, niente assembramenti, nemmeno di suoni. Non si riesce ancora a “far massa”, a ritornare di nuovo compeltamente “collettività”.
E siccome mai come per il pubblico teatrale vale l’assunto gestaltiano per cui la somma degli elementi considerati nel loro insieme “è di più” della somma degli stessi elementi considerati singolarmente, accade che l’energia della risata del pubblico, che appunto prima cresceva autoalimentandosi, aggrovigliandosi con quella di tutti e infine, come palla di neve, catapultandosi sull’attore in scena… ora invece si discioglie in tanti rivoletti sterili, singoli quanto sghembi, e dalla gittata corta (senza contare che il pubblico deve tenere la mascherina in teatro, e questo attenua – è stato calcolato – quasi del 45% i decibel di emissione sonora della fonazione, quindi anche quella delle risate!).
Si dirà: e cosa si può fare? Ah be’, niente, se non prenderne atto. Tipo essere consapevoli che, applicando i parametri pre-Covid, un attor comico oggi ne potrebbe ricavare una sensazione tipo “stasera non sta funzionando…”. E invece magari si sbaglia, magari potrebbe non esser così male: è solo che manca l’amalgama. Che non vuol dire sentirsi rilassati al punto da riposare sugli allori, ma solo che: se ADESSO ti sembra che sia andata benissimo, che t’è arrivata dal pubblico la stessa energia di quelle fantastiche repliche di PRIMA che tutto si fermasse… beh, ecco, allora forse hai fatto davvero una GRANDE replica.
Insomma, adesso è un po’ come fare spettacolo in Svizzera – Svizzera italiana, ovvio -, dopo averlo fatto… che so, a Zelig il sabato sera.
E solo chi ha fatto spettacolo nella Svizzera italiana sa quanto sia pertinente chiudere, così, questo pezzo…