Dopo il grande rumore mediatico scatenato nel gennaio 2023 dall’assalto dei bolsonaristi ai palazzi del potere di Brasilia, di Brasile si è parlato relativamente poco, e soltanto per il rinnovato protagonismo internazionale sotto la guida di Lula da Silva, in particolare insieme agli altri Paesi BRICS. Ma per Lula la vera sfida è stata restituire la fiducia nello Stato ai brasiliani, provati dalla disastrosa gestione della pandemia, e insieme rilanciare un’economia ristagnante. A distanza di un anno, i numeri confermano la capacità del “presidente operaio” di gestire un’economia complessa, che per quasi sei anni era stata trascurata dalla politica. L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha appena alzato il rating del Paese sudamericano da BB- a BB, il tasso di sconto è stato ridotto all’11,75%, il dato più basso dal marzo 2022, ed è scesa anche l’inflazione annua, prevista dalla Banca Centrale al 3,25% per il 2024. Una riforma sostanziale è stata quella tributaria, rimandata da decenni, che offrirà agli investitori internazionali un quadro certo. Riprendendo la tradizione industrialista del suo partito, Lula ha appena annunciato un maxi-piano di investimenti di quasi 60 miliardi di dollari USA per le imprese dell’agroindustria e della sanità, ma anche per quelle attive nella trasformazione digitale e nella decarbonizzazione.
Resta sempre delicato il dossier Amazzonia, dopo il calo dei minatori illegali, dimezzati dalle espulsioni operate in questi mesi dall’esercito, e il ripristino dei sistemi di sorveglianza satellitare per la prevenzione degli incendi. La foresta soffre però le conseguenze di una grave siccità prodotta dai cambiamenti climatici e ripristinare l’equilibrio naturale è sempre più difficile. Gli ambientalisti hanno criticato la richiesta di adesione all’OPEC avanzata del governo brasiliano, che l’ha giustificata come misura di accompagnamento verso l’abbandono dell’energia fossile: è da vedere se la promessa sarà mantenuta. Sul piano sociale, i programmi di sostegno alimentare e alle famiglie sono stati riportati ai livelli di otto anni fa, dopo i tagli della presidenza Bolsonaro.
In un lasso di tempo molto breve, appena un anno, la situazione del Brasile appare indubbiamente migliorata: la stabilità macroeconomica del Paese è stata riconquistata, il suo profilo industriale rilanciato, gli aspetti sociali più emergenziali tamponati. In realtà, non erano questi i temi centrali quando i brasiliani scelsero Lula. Si trattava di salvare la democrazia ipotecata da un presidente fortemente ideologizzato e sostanzialmente incapace di governare un grande Paese. Lula ci ha aggiunto del suo, ben sapendo che Bolsonaro era figlio degli anni di instabilità che lo avevano preceduto, dopo l’impeachment contro Dilma Rousseff. Ora il punto è capire se basterà un Paese stabile, che difende l’ambiente, dà speranza ai poveri e fa crescere l’economia per neutralizzare i tribuni alla Bolsonaro o alla Milei. Questo è il principale interrogativo che in molti si pongono in questi tempi dominati dai social network, attraverso i quali si costruiscono realtà parallele, si diffondono fake news, si alimenta l’odio e si costruiscono leadership. Con Lula, in Brasile è tornata la politica dei fatti, a dimostrazione che le promesse elettorali possono essere rispettate e che, per governare, non occorre gridare o insultare. Ma il mondo è ancora capace di apprezzare una classe politica che fa seriamente il suo lavoro e non passa il giorno a twittare? La domanda rimane senza risposte, almeno per ora. Al di là di queste riflessioni, valide a livello globale, l’esperienza appena iniziata del terzo mandato di Lula sarà il banco di prova per tutta la vecchia sinistra latinoamericana, schiacciata tra populismi fallimentari e utopie irrisolte: il pragmatismo e i conti in ordine possono convivere con politiche progressiste e con una giustizia sociale e ambientale? Parrebbe di sì, ma bisogna vedere se gli elettori sono d’accordo.