È vero, lo sapevamo tutte, come da hashtag da tante condiviso, quando si è saputo che Giulia Tramontano, 29 anni e un bambino in grembo, era stata uccisa dal suo compagno e il suo povero corpo ritrovato in un’intercapedine poco lontano da quell’appartamento in cui fino a qualche giorno fa sperava di accogliere e crescere suo figlio insieme al padre.
Lo sapevamo tutte, come non saperlo quando il copione si ripete con tanta frequenza, quando lui denuncia la scomparsa, appare stranito e, via via, si aprono buchi nella ricostruzione che il lavoro paziente degli inquirenti chiarisce: la lite, la scoperta di un’altra – pure lei incinta e poi costretta ad abortire – i messaggi via chat alla mamma e all’amica per far reggere il fragile castello di una scomparsa volontaria. Lo sapevamo tutte, non è purtroppo neanche la prima volta che una donna incinta viene uccisa: mi torna in mente una storia che avevo seguito nel lontano 2006, la morte crudele di Jennifer Zaccconi, 22 anni appena, al nono mese di gravidanza, massacrata e sepolta che era ancora viva dall’uomo con cui stava, sposato e padre di due figli. Di recente quella storia è tornata fuori: i parenti della ragazza non hanno diritto a nessun risarcimento, hanno stabilito i giudici d’appello.
Lo sapevamo tutte. Molte cose sappiamo della violenza contro le donne, i numeri innanzitutto e sono più di 100 ogni anno le vittime, la trasversalità a ogni condizione sociale ed economica, il tema dell’autorizzazione maschile e della violabilità del corpo delle donne, la gigantesca questione culturale che impasta ancora le relazioni tra uomini e donne e non le fa libere e non le fa eguali.
Lo sapevamo tutte dunque, lo sapevo anche io e per tutti i motivi di cui sopra. Eppure ieri, passando dalla Stazione centrale e vedendo così vicino il bel volto di Giulia nei tanti manifesti che chiedevano di attivarsi per ritrovarla, ho dato per un attimo retta al mio desiderio che per una volta, una sola volta, ci potessimo sbagliare, che lei tornasse da chi le voleva bene, che una famiglia affettuosa, che si era precipitata a cercarla dalla Campania a Milano, riuscisse a riabbracciarla, ad aiutarla a guarire il dolore, a uscire da una relazione tossica, e ad accogliere il suo bambino come vanno accolti i bambini. Lo stesso desiderio sconfitto l’ho visto ripetersi nei commenti di tante donne oggi, quando si è saputo – in tutti gli orribili dettagli, in tutta la sua atroce dinamica – che invece era stata uccisa dal suo compagno. Non si sperava in un lieto fine – sarebbe comunque stata una storia atroce e un uomo da cui scappare a gambe levate – ma in una salvezza sì. Molti anni fa uno slogan della Casa d’accoglienza delle donne maltrattate recitava più o meno così: ‘Prima di tutto vive’. Ferite, deluse, a pezzi, ma almeno vive. Ce l’ho fisso in mente: siamo ancora lì, a cercare di raggiungere almeno questo, ad essere ancora una volta smentite.