Mi piace Asia Argento. Ho sempre trovato una strana consapevolezza nel suo essere sopra le righe. Come a dire: “Sì, a volte esagero, faccio la minchiona, ma so esattamente quando devo scendere dalla luna”.
E poi, da addetto ai lavori, negli anni ne ho potuto apprezzarne la competenza musicale – la sua “Gloria”, cantata con gli Indochine, é un pezzone – e il grezzo ma a suo modo ipnotico talento recitativo. Asia mi è sempre apparsa come una di quelle amiche belle e svampite, con il carattere da maschiaccio, con cui si passano splendidi pomeriggi a bere, fumare e ascoltare grandissimi dischi mentre fuori diluvia.
Innata empatia che provo nei suoi confronti a parte, certi suoi eccessi, certe esagerazioni, certi comportamenti sopra le righe, ho spesso fatto fatica a capirli, etichettandoli come capricci dell’ego gigantesco di una ragazzina che ha preso troppo poche sculacciate da piccola. Questo finché non ho letto il suo libro, “Anatomia di un Cuore Selvaggio”. Una lettura trascinante, a tratti commovente, a tratti brutale. Di certo sorprendente. Pagine dense di peccati e redenzione, pagine insanguinate come una via crucis, pagine che non fanno sconti a nessuno, a partire proprio da Asia stessa. Una donna complicata la Argento, sempre in bilico fra equilibrio e precipizi, ma con attenuanti non da poco per le sue tante stonature. Già perché crescere con una madre – l’attrice Daria Nicolodi – che ti picchia, ad appena due anni ti scaraventa lungo il corridoio, non si interessa della tua crescita, manda la tata alle recite e a parlare con i professori, e a quattordici anni ti porta in tribunale perché vuole rinunciare alla patria potestà non é il massimo.
Con papà Dario va decisamente meglio, anche se pure lui non vince l’oscar di padre dell’anno, sempre in giro per il mondo con i suoi film mentre questa ragazzina dal nome del continente dove sorge il sole è costretta a crescere da sola, potendo contare unicamente sulle proprie forze. Se a questo aggiungiamo una sorella con problemi di anoressia che muore tragicamente in un incidente in motorino, beh, l’idea di equilibrio di un qualsiasi adolescente o post adolescente va bellamente a farsi fottere.
Pugni stretti e rabbia a scaldare il petto, Asia corre, si fa grande, bella, instabile e, a suo modo, anche profonda. Scrive poesie, recita nei primi film, fa l’amore con tanti, troppi uomini, alla disperata ricerca di qualcuno capace di colmare quel vuoto che ha dentro; e si perde, si perde nel narcotico abbraccio dell’alcool e in quello adrenalinico delle pastiglie.
Cresce, inciampa, annaspa, va avanti.
Sfonda negli Stati Uniti, subisce gli schiaffi sessuali del tiranno di Hollywood Harvey Weinstein, si innamora follemente di una rockstar – Jon Spencer della Jon Spencer Blues Explosion – e poi esorcizza tutto in “Scarlet Diva”, il suo primo film da regista.
Sempre a un passo dal baratro della depressione, trova nuovo slancio nella storia con Marco “Morgan Castoldi”. Pochi mesi dopo averlo incontrato é già incinta. Eppure quei due hanno l’anima che sanguina troppo; Marco ha fantasmi grandi come quelli di Asia a spremergli il cuore, con la tragedia di un padre morto suicida e una mente troppo affilata, di quelle faticose da gestire. Tra liti e riappacificazioni, i due scoppiano dopo sette anni. In mezzo il secondo film di Asia, “Ingannevole il cuore più di ogni altra cosa”, tratto dall’omonimo libro di JT Leroy, il giovane scrittore sieropositivo maltrattato dalla madre che ha scritto due romanzi di culto. Struggenti, profondi, bellissimi. Peccato sia tutto finto, JT non esista e quelle meravigliose pagine siano state vergate da Laura Albert, una bulimica ultra trentenne piena di problemi ma dalla penna, questo le va concesso, bollente come poche. Ma questo Asia non lo sa, e quando lo scopre ci resta male, malissimo; in quel ragazzino si é rivista, ha rivisto un dolore che conosce troppo bene, e si sente tradita.
E allora decide di darsi una calmata, smettere di spargersi sale sulle ferite e vedere se la salvezza non abiti dalle parti di quella vita tranquilla, quasi conformista, che non ha mai vissuto. Si mette con Michele Civetta, regista trapiantato in America con la passione per il surf, con il quale ripete il pattern di restare incinta dopo qualche mese. Ma stavolta c’é dentro davvero questa cosa della happy family, una normalità a tutti i costi che Asia persegue con forza. Cambia look, impara a cucinare, mangia macrobiotico, va alle festicciole dei figli. Si trasforma in una perfetta donna di casa. E per un po’ funziona, un’apatica serenità la pervade per qualche anno, regalando al mondo un Argento diversa.
Ma é solo un frammento meno smussato di una vita fatta di pietre aguzze e scogli taglienti.
Finisce con Michele e con il macrobiotico, ritorna l’alcool e la sensazione di non appartenere a nulla. Un momento professionale difficile, e il treno Asia rischia di deragliare, complice l’intervista sulle molestie subite da Weinstein concessa a quella serpetta di Ronan Farrow, che lei sostiene sia stata mal riportata sul New York Times. Nel battito di ciglia di una notte, diventa la paladina del #metoo negli Stati Uniti, e una mezza sgualdrina che se l’é cercata per una parte di opinione pubblica italiana.
La cosa potrebbe definitivamente frantumarla non fosse che, passata la boa dei 40, quell’amore capace di essere padre, amante e migliore amico, Asia sembra finalmente averlo trovato nel celebre chef e scrittore francese Anthony Bourdain, vera e propria rockstar della cucina, con un passato sregolato, fatto di droghe, tormenti ma anche tanto talento e genialità. Anthony la sostiene, supporta e ama. Happy end? Manco per il c***o perché lui si suicida, impiccandosi in una camera d’hotel l’8 giugno del 2018. Pare soffrisse di depressione.
Asia ne è distrutta, anche perché i fan di Bourdain l’additano come colpevole per via di un flirt con un giornalista francese che, a detta loro, avrebbe spinto lo chef a farla finita. Ovviamente i motivi sono altri, ma intanto quei pettegolezzi feriscono, fanno il giro del mondo, e per la Argento sono lacrime e sangue.
E non è finita, tre mesi dopo la morte del compagno, il New York Times pubblica un articolo contenente i dettagli di un presunto accordo economico fra la Argento e l’attore Jimmy Bennett, che aveva interpretato suo figlio nel film “Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa”.
Secondo Bennett, cinque anni prima, quando lui era minorenne, Asia lo avrebbe fatto ubriacare in una camera d’albergo in California per poi abusare sessualmente di lui. La Argento nega ogni accusa ma ormai il danno è fatto: tv e giornali si tuffano a pesce sulla notizia, realizzando nauseanti servizi e creando un polverone tale che la Argento è costretta a lasciare la scrivania di X Factor, forse l’unica esperienza televisiva in cui era perfettamente a suo agio e non sembrava l’unico pesce nero in una vasca di pesci rossi.
Il libro finisce nel dolore della perdita dell’odiata/amata madre Daria, con cui dopo il drammatico rapporto dell’infanzia e dell’adolescenza, negli anni aveva ricostruito un legame affettivo stabile, in parte grazie alla nascita dei figli, con i quali la Nicolodi si era dimostrata una nonna presente, affettuosa e generosa.
Wow, che viaggio. Che emozioni! E che sofferenza. Tanta, troppa. Davvero troppa.
Capisco bene quei nervi scoperti, quel vivere senza pelle, quell’ovo sodo che non va su e nemmeno giù, come diceva il film di Virzì. Ma nel caso di Asia si va oltre. Pensieri dark, come li chiamava Bourdain. Pensieri che certamente nascono da quell’infanzia negata, quel non sentirsi voluta, accettata. Amata. Non sono uno psicologo, ma qui nemmeno ce ne vuole uno. È tutto così chiaro. Eppure fa un male boia. Lo fa per noi leggerlo, non oso immaginare cosa sia stato per lei viverlo.
C’è solo un momento in tutto il libro in cui Asia appare veramente felice, appagata, libera. È quando se ne sta a pescare nella sua isola selvaggia insieme a Pietro, che non è uno dei tanti amanti famosi dei quali potrete legger nel libro, ma un amico pescatore che conosce da bambina e con cui – lontana dai film, dalle passerelle, dai social e dagli egotrip di cui tutti ci nutriamo a seconda di quanto la nostra scala sociale ci consente – è davvero sé stessa. E in quel silenzio, tra la natura, riesce finalmente a placare la mente, scendere dentro sé stessa e far pace con la parte più divina e speciale che è in noi.
Mi viene in mente una storia indiana che spiega cosa voglio dire meglio di mille discorsi.
C’era un tempo antico in cui gli uomini erano simili agli Dei, ma abusarono talmente di questo privilegio che il Dio Brahma gli sottrasse la potenza divina e decise di nasconderla in un luogo a loro inaccessibile. Sì ma quale? Brahma era molto indeciso su quale fosse il miglior posto dove nascondere il divino sottratto agli uomini, così chiese aiuto agli altri dei.
Alcuni Dei dissero: “Nascondiamo la divinità dell’uomo nelle viscere della terra”.
“Non è sicuro, l’uomo scaverà e la troverà” rispose Brahma.
Gli Dei dissero allora: “Nasconderemo la divinità dell’uomo negli abissi oceanici”.
Ma Brahma replicò: “Non basta. L’uomo scenderà nelle profondità dei mari e riuscirà a riportarla in superficie”.
Allora gli dei ribatterono: “La nasconderemo sulle cime della montagna più impervia, al limite del cielo, dove l’uomo non potrà arrivare”.
Ma Brahma rispose ancora: “Non basta. L’uomo scalerà le montagne più alte e se ne impadronirà”.
A quel punto gli dei sconsolati si arresero: “Non sappiamo dove nascondere la divinità dell’uomo, non esiste posto sulla terra, nel mare o nel cielo che egli non possa raggiungere”.
Ma improvvisamente Brahma sentì di aver trovato la soluzione al problema: “La nasconderemo nel profondo dell’uomo stesso: è l’unico posto in cui non guarderà”.
Davanti al tempio del mare, su una barca che oscilla davanti alla luna, ecco il cuore selvaggio di Asia accordarsi e poi placarsi al rumore dell’onda. E trovare, per un attimo, quel divino dentro di sé capace di regalare la pace.