Si può aggiungere ammirazione ad ammirazione, riconoscenza a riconoscenza, nei confronti di Liliana Segre? Sì, ad ascoltarla ieri, in Senato per dare il proprio convinto sì all’ordine del giorno per la cittadinanza italiana a Patrick Zaki.
Lo ha fatto come donna che ha vissuto la reclusione più dura e ingiusta e sente addosso, ancora a distanza di tanti anni, l’ambivalente e terribile sensazione di allora – quella di oggi di Patrick, detenuto da 431 giorni- il non sapere cosa sperare, a libertà ormai perduta, nel tempo della cella.
“Sono stata prigioniera in una prigione italiana : mi ricordo che non sapevamo, noi che eravamo lì, se preferire essere isolati con la porta chiusa o se quella porta fosse meglio aperta. Da quella porta potevano entrare infatti notizie agghiaccianti, comandi spaventosi”.
E poi ha aggiunto la cosa più semplice: “Potrei essere la nonna di Zaki e come nonna di Zaki sono venuta a dire la mia parola. Ci sarò sempre per la libertà”. Non è un vezzo da vecchia signora che porta con fiera bellezza i suoi anni, non è il ricorso ad un lessico familista che dalle nostre parti impazza, svuotato di senso: è invece tenerezza.
Ed è bello, ed è politico che il linguaggio della tenerezza – lo sguardo di occhi anziani che accompagna giovani vite – entri nei luoghi dell’istituzione. Con asciuttezza, senza retorica, ma nominando e dando cittadinanza a questo sentimento di cui Patrick nella solitudine di una cella egiziana ma noi tutti, nel tempo difficile che stiamo vivendo, abbiamo gran bisogno.