Del Venezuela non si parla ormai da molto tempo. Il Paese sudamericano è uscito dai riflettori dei media internazionali all’inizio della pandemia, per scomparire definitivamente con l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Fondamentalmente ciò è accaduto perché gli Stati Uniti, fino a pochi anni fa impegnati in una campagna a tutto campo contro il governo di Nicolás Maduro, hanno concesso al Venezuela un’apertura che va letta integralmente nella logica della geopolitica del petrolio, scossa appunto dalla guerra Ucraina. È l’ennesima dimostrazione di come i diritti umani e politici si possano barattare senza rimorsi per garantirsi la continuità nei rifornimenti di materie prime strategiche. Sabato 26 novembre, a Città del Messico, l’opposizione e il governo venezuelano hanno raggiunto un accordo di minima per la ripresa del dialogo, agevolato dalla Norvegia in veste di mediatore e – soprattutto – dall’impegno statunitense sullo scongelamento dei capitali venezuelani all’estero, bloccati dalle diverse sanzioni accumulate negli anni dal Paese e dalla sua classe dirigente. I fondi dovrebbero essere investiti nella sanità e per l’alimentazione di un popolo ormai provatissimo: la crisi economica, infatti, risale addirittura a tempi precedenti alle sanzioni, quando fu innescata dall’incapacità dell’erede di Hugo Chávez di gestire l’economia nazionale.
Intanto, il Venezuela è entrato nella storia come lo Stato americano che ha perso la maggior quota di popolazione nel minor tempo. Sono circa 7 milioni, secondo i dati delle Nazioni Unite, i venezuelani che negli ultimi 8 anni sono emigrati in altri Paesi latinoamericani, soprattutto Colombia e Perù, o verso gli Stati Uniti e l’Europa: significa che quasi il 25% della popolazione totale è fuggita cercando opportunità all’estero, un fenomeno che non si era mai verificato in tempi di pace. Eppure il governo di Maduro è ancora al potere e gode di un discreto consenso, ovviamente al netto dei dubbi sulla libertà di espressione e sulla trasparenza degli ultimi processi elettorali, come più volte denunciato. Ma oggi il punto non è questo, bensì il fatto che il termometro dell’importanza dei diritti si è dimostrato fortemente legato a considerazioni di realpolitik. Nulla di nuovo, per carità: è la semplice constatazione della schizofrenia di un mondo che a parole difende i diritti calpestati, esigendo ad esempio che i calciatori delle nazionali occidentali compiano gesti politici ai Mondiali di calcio, ma che non si sogna di interrompere le relazioni finanziarie con il Qatar, né di sanzionare la Cina per la vicenda degli uiguri. E che ora chiude un occhio sul Venezuela dopo averlo messo al bando per anni, anche se il governo che ha dissanguato il Paese non intende cambiare nulla, nemmeno davanti all’esodo di un quarto della popolazione. Probabilmente erano sbagliate le sanzioni, così come ora è sbagliato, in nome del petrolio, fare finta che tutto sia normale a Caracas.
Sarebbe ora, come già chiesto da diversi intellettuali, che l’Occidente si togliesse definitivamente la maschera dell’ipocrisia e affrontasse la realtà in modo pragmatico. Le sanzioni e le condanne, se non sono seguite dai fatti, servono solo a ripulire la propria coscienza, ma chi viola i diritti questo lo sa benissimo. Il re è nudo: dopo secoli di colonialismo, e qualche decennio di finta protezione dei diritti, il mondo ormai si divide tra regimi e parolai. Se i regimi sono sempre esistiti, e continuano a fare il loro gioco, i parolai rappresentano la versione politically correct di un gioco d’interessi che è anch’esso antico come il mondo: che la mia mano destra non sappia cosa fa la sinistra. Nel frattempo, la democrazia arretra ovunque, e chi pensa che a difenderla basterà una campagna sui social o una dichiarazione roboante sui diritti calpestati o è ingenuo oppure complice.