Ci sono tante questioni che porta con sé la legge Zan, alcune delle quali complesse, certo.
Ma dietro il dibattito di questi giorni c’è soprattutto una questione culturale molto semplice che ha a che fare con il linguaggio come strumento di discriminazione.
Il linguaggio, si sa, non è una cosa diversa dal ragionamento. Il linguaggio è il ragionamento, è logos – cioè appunto parola, discorso e ragionamento.
Se a uno che non vuole pagare il conto dico “sei proprio un ebreo” non sto emettendo fonemi neutri, sto commettendo un’azione di discriminazione.
E lo stesso vale per le tante parole oggi rivendicate in un’ondata di esaltazione intestinale del politicamente scorretto.
Parole come frocio, mongoloide o tranvone alzano il tasso di discriminazione e abbassano il tasso di civiltà. Inquinano l’aria che respiriamo tutti. Soprattutto se vengono sdoganate sui media, sui titoloni dei giornali fasciotrash che poi tracimano nelle rassegne stampa in tv.
Sia chiaro: la legge Zan non punisce chi usa questi termini, non c’è alcuna limitazione nemmeno all’uso peggiore della libertà d’espressione. Punisce solo l’istigazione. Ma il bivio che abbiamo davanti non è soltanto legislativo, è anche culturale.
Dobbiamo un po’ decidere, come società, che tipo di paese vogliamo essere, che aria vogliamo respirare e far respirare alla generazione futura.