Il pozzo. Il pozzo in cui, una volta o tante, ogni donna finisce per cadere. Natalia Ginzburg lo ha raccontato benissimo e la sua voce risuona per tutte: “Ho conosciuto moltissime donne, e adesso sono certa di trovare in loro dopo un poco qualcosa che è degno di commiserazione, un guaio tenuto più o meno segreto, più o meno grosso: la tendenza a cascare nel pozzo e trovarci una possibilità di sofferenza sconfinata che gli uomini non conoscono forse perché sono più forti di salute o più in gamba a dimenticare se stessi e a identificarsi con il lavoro che fanno, più sicuri di sé e più padroni del proprio corpo e della propria vita e più liberi”.
Ho pensato al pozzo evocato da Ginzburg e a quanto profondamente ci deve essere entrata e in quali insondabili oscurità si deve essere ritrovata Martina Patti per arrivare a uccidere la piccola Elena, sua figlia, fare a pezzi quel povero corpicino e seppellirlo in un campo per poi simulare un improbabile rapimento e, infine, confessare ciò che aveva compiuto. Ho pensato al pozzo e, in parallelo, alle immagini che accompagnano ogni nascita e che illudono le donne – così vuole il mondo intorno ed è una richiesta pesante e pressante – che diventare madri sia la cosa più naturale e immediata del mondo, solo gioia, stupore, capacità di proteggere e accudire e infinito amore. E invece ognuna sa di non avere percorso un sentiero dolce e fiorito, ma di avere attraversato un labirinto di emozioni in cui c’è stato posto anche per il buio, la paura, l’inadeguatezza. E se si è diventate poi madri sufficientemente buone, come dice Winnicott, è perché si avevano a disposizione risorse e capacità personali, e non tutte le hanno in pari misura, ma anche un contesto, il padre innanzitutto e via via allargando il cerchio e non solo alla famiglia, che ha saputo esserci, sostenere, rassicurare, in qualche momento sostituire e alleviare.
So nulla, se non quel che ho letto sui giornali, della giovane vita di Martina Patti, 23 anni, madre ad appena 17, la relazione con il padre già saltata per aria, una vita in un paese alle falde dell’Etna, una laurea in Scienze motorie all’università di Messina che doveva essere il prologo per poi studiare da infermiera: c’è chi la dice gelosissima della nuova compagna di lui e dell’affetto che la bimba le mostrava, chi ricorda – il ramo paterno – che la piccola Elena prendeva più d’uno schiaffo e addebita al desiderio di vendetta sull’ex compagno l’omicidio della figlia.
Non sappiamo, ogni spiegazione appare povera, forse non sa lei: ‘Non ero in me’ ha detto agli inquirenti. Delle tante cose lette, delle tante pensate – la prima è che la maternità va socialmente e fortemente sostenuta – la più giusta mi è sembrata quella detta da un’altra donna, una vicina di casa di Martina Patti. Ha detto con la semplicità di una credente: “Ora è la mamma ad avere bisogno di preghiere” ed era un modo per dire che si fa presto a condannare – noi, non la giustizia che evidentemente dovrà fare il proprio mestiere – e che è la scorciatoia più sbagliata, quella per non vedere l’urgenza di non lasciare sole le madri e tutelare i bambini.