Appunti sulla mondialità

La guerra europea vista da lontano

A due mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, il conflitto bellico che si è generato resta sostanzialmente una guerra europea, anche se non mancano le ripercussioni sull’economia globale. È sempre più palese come il tentativo delle potenze occidentali di collocarlo al centro dell’attenzione e della solidarietà mondiali sia fallito. Fuori dalla cerchia dei Paesi aderenti alla NATO, al di là dei rari Paesi che presentano strette relazioni politiche ed economiche con la Russia, l’atteggiamento dominante è per la stragrande maggioranza quello della semplice indifferenza. Questa situazione si può leggere, almeno in parte, nel quadro del progressivo logoramento del diritto internazionale avvenuto negli ultimi decenni. Il rispetto delle regole, ad esempio l’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite che vieta il ricorso agli eserciti per regolare i problemi tra gli Stati, non solo è stato clamorosamente violato dalla Russia di Putin nel 2022, ma anche dagli Stati Uniti di George W. Bush nel 2001 in Afghanistan e nel 2003 in Iraq. Per molti Paesi, anche gli interventi militari dei paesi NATO in Libia nel 2011 e in Kosovo nel 1999 rappresentavano forzature interventiste.

La questione è che siamo di fronte a un diritto internazionale à la carte, che serve per condannare il nemico ma mai per mettere in discussione le proprie azioni. Per i Paesi indifferenti al conflitto ucraino, la Russia sta esercitando il suo “diritto” di potenza tanto quanto altre potenze hanno fatto in passato. Questo a prescindere dalle farneticazioni con cui Vladimir Putin cerca di giustificarsi. Semplicemente assistono in modo neutrale a uno scontro che non sentono loro, e che considerano sulla scia di quanto le potenze mondiali – USA, Regno Unito, Francia, URSS e oggi Russia – hanno sempre fatto per tutelare i propri interessi: se necessario, combattendo guerre al di fuori del diritto internazionale. Questa alterazione del quadro della convivenza tra Stati risale ai tempi del colonialismo: forse non troppo paradossalmente, oggi sono anche alcuni Paesi ex coloniali a “giustificare” l’offensiva della Russia perché utile a difendere, anche se in modo maldestro e sanguinoso, i suoi interessi vitali di fronte ai Paesi NATO. I quali, in questo frangente, sono diventati legalisti.

Pochi, insomma, credono sinceramente nel diritto dell’Ucraina a essere uno Stato indipendente che decide in autonomia il proprio futuro; molti invece sondano la capacità militare russa, la debolezza di un’Europa assetata di risorse energetiche e l’efficacia degli armamenti utilizzati da entrambe le parti, in una partita di Risiko dove perderanno quasi tutti. Ma non tutti. Nella tradizione cinese, il vero vincitore di una guerra è chi non la combatte: e alla fine saranno i grandi Paesi rimasti neutrali a dover ricostruire, quando le armi taceranno, un tessuto di relazioni saltato in aria. Quando l’auspicato cessate il fuoco avverrà, il compito sarà immane: anzitutto si dovrà discutere dell’assetto territoriale ucraino, in secondo luogo discutere finalmente di aree di influenza tra Europa e Russia. L’Unione Europea dovrà decidere se dotarsi di un proprio dispositivo di sicurezza oppure continuare a prendere ordini da Washington attraverso la NATO. Ci sarà anche da riflettere sul diritto internazionale e le sue istituzioni, se sono definitivamente da buttare via o invece è possibile rilanciare la riforma del Consiglio di Sicurezza. E infine bisognerà tornare all’agenda del vero problema che mette in dubbio il futuro della Terra, il cambiamento climatico. Un’emergenza che, se non sarà affrontata collettivamente, non potrà mai essere risolta. La divisione manichea del mondo tra virtuosi e fuorilegge, a geometrie variabili, non aiuta a trovare soluzioni ai grandi temi. Se si vuole il rispetto del diritto internazionale occorre metterlo in condizioni di funzionare efficacemente; se si vuole discutere seriamente di cambiamento climatico bisogna fare lo sforzo di mettersi nei panni degli altri. Dialogo, politica e diplomazia dovrebbero essere le tre parole d’ordine per il dopoguerra, se avremo imparato qualcosa.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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