Appunti sulla mondialità

La geopolitica del petrolio in Amazzonia

Ci sono tutti gli elementi perché diventi uno di quei film che presentano l’America Latina attraverso i suoi stereotipi. Stiamo parlando della vicenda della Guayana Esequiba, un territorio di 160mila chilometri quadrati che costituisce i due terzi della Repubblica Cooperativa della Guyana (l’ex Guyana Britannica). Gli ingredienti della fiction ci sono tutti: oro e foreste inestricabili, petrolio, dittatori e un’ambientazione esotica, un Paese tropicale che pare inventato dalla fantasia di un romanziere. Basti pensare che la Guyana è popolata al 40% da indiani, non nel senso di indios ma di discendenti di abitanti dell’India, che furono portati fin qui dai colonialisti inglesi. L’improvvisa notorietà di un lembo d’Amazzonia che pareva dimenticato da Dio si deve al fatto che, pochi anni fa, vi sono stati scoperti ricchi giacimenti di greggio, stimati in 11 miliardi di barili. Così il presidente venezuelano Nicolás Maduro si è ricordato che la Guayana Esequiba è da tempi lontani contesa tra il suo Paese e la Guyana, e a inizio dicembre ha organizzato un paradossale referendum “non vincolante” in cui ha domandato ai venezuelani se volessero rientrare in possesso di quella regione. È andata a votare circa la metà degli aventi diritto e con il 95% ha vinto il “sì” al passaggio della Guayana Esequiba a Caracas.

Subito Maduro ha chiesto alle compagnie energetiche venezuelane di entrare nella regione e di avviare estrazioni petrolifere, come se il referendum bastasse a rendere quel territorio davvero “suo”. Il blitz venezuelano ha fatto saltare in aria il lavoro della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, che dal 2018, su richiesta della Guyana, stava esaminando il caso dell’appartenenza della Guayana Esequiba. La vicenda risale al periodo coloniale. La Repubblica Cooperativa della Guyana afferma la legittimità dell’attuale confine, ratificato da un tribunale arbitrale nel 1899. Il Venezuela nega la validità di quella sentenza e pretende il ritorno al più antico confine tra i possedimenti coloniali spagnoli (nei quali rientravano sia il Venezuela sia la Guayana Esequiba) e quelli olandesi, divenuti poi in larga parte britannici. Si tratta di una lite per la sovranità su un territorio che, in realtà, fu usurpato sia dalla Spagna sia dai Paesi Bassi e dal Regno Unito ai legittimi proprietari, gli indios che ancora vivono nelle foreste. Ma questo conta poco: tutti i diritti territoriali dei Paesi americani, dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco, discendono dal diritto di occupazione che le potenze coloniali si auto-attribuirono a discapito di chi abitava quelle terre da millenni. Come facilmente prevedibile, anche questa strana “guerra di Macondo” è subito diventata una tessera nel mosaico delle tensioni geopolitiche globali. Maduro è sostenuto dalla Russia, la Guyana dagli Stati Uniti, in quello che pare un sequel della Guerra Fredda; il Brasile, che confina con entrambi i contendenti, sta tentando una mediazione pacifica, ma nel frattempo muove le sue truppe verso la regione.

Guardando il mondo da questi luoghi, è difficile pensare che la transizione energetica e il superamento delle fonti fossili avverranno in tempi rapidi. Anzi. Il petrolio rimane al centro di tensioni che possono sfociare in conflitti aperti, anche quando di mezzo c’è un Paese come il Venezuela, gigante del greggio che non riesce a sfruttare nemmeno il 50% del proprio potenziale per mancanza di investimenti e corruzione generalizzata. L’interesse degli Stati Uniti è ovvio, la Guyana ripagherà il sostegno di Washington rilasciando licenze estrattive alle compagnie statunitensi. Altrettanto evidente è la ragione del sostegno russo alla bizzarra mossa di Maduro: Mosca vuole aprire nuovi fronti caldi affinché gli Stati Uniti abbassino la guardia in Ucraina. È tutto scontato, alla luce del sole, ma non per questo meno pericoloso: finora il continente americano era rimasto fuori dalla mappa dei conflitti bellici, mentre ora la contesa per la  Guayana  Esequiba potrebbe cambiare la situazione. Se solo Maduro rileggesse la storia dei militari argentini, quelli che nel 1982 tentarono di riprendersi le Malvinas, sarebbe più cauto, perché il nazionalismo come salvagente di un regime che sta affondando è un’arma a doppio taglio. Accende sì entusiasmi immediati, ma poi il popolo si può rivoltare, quando diventa chiaro che l’irredentismo era solo un diversivo utile a far dimenticare questioni ben più gravi.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    1) Il gabinetto di sicurezza israeliano approva l’accordo per il cessate il fuoco a Gaza. Fino a domenica, però, le bombe continueranno a cadere. Più di 100 persone sono state uccise nella striscia dall’annuncio dell’accordo. (Anna Momigliano - Haaretz, Francesco Sacchi - Emergency, Anna Meli - Cospe) 2) Fentanyl, Taiwan e Tik Tok. Donald Trump e Xi Jinping parlano al telefono per la prima volta dal 2021. “Risolveremo tutti i problemi insieme” dice Trump, mentre la corte suprema statunitense conferma il bando di TikTok. (Gabriele Battaglia) 3) La Geopolitica dell’AI. Washington cerca di mantenere il suo vantaggio nella battagli per l’intelligenza artificiale. (Marco Schiaffino) 4) La legge di depenalizzazione dell’aborto in Francia compie 50 anni. Il discorso di Simon Veil, pronunciato davanti ad un’Assemblea tutta maschile, fece la storia. 5) Mondialità. La sconfitta della diplomazia e la geopolitica nel frullatore. (Alfredo Somoza)

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    Sessantotto lavoratori e lavoratrici della ristorazione licenziati. Grandi Stazioni Retail ha deciso di non rinnovare il contratto d’affitto con Sarf, la società che da anni gestisce alcuni esercizi commerciali negli spazi della stazione Centrale di Milano. Da qui l’annuncio dei licenziamenti. I sindacati hanno indetto la prima di una serie di giornate di sciopero e oggi hanno fatto un presidio in piazza Duca d’Aosta, vicino all’ingresso della stazione. Abbiamo intervistato Valeria Cardamuro, segretaria della Uiltucs Lombardia.

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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