Sono tre gli elementi che si intrecciano nella crisi kazaka, Tre elementi che provengono da ere politico-economiche differenti e che ritroviamo contemporaneamente presenti nella fase storica che stiamo vivendo, caratterizzata dalla complessità. Il primo è quello di un regime politico dispotico corrotto di impostazione clanico-familista, che ruota intorno alla figura di Nazarbayev, ininterrottamente al potere – con diverse cariche istituzionali – dalla nascita dello Stato kazako, nel 1991. Il secondo è legato alla linfa che ha alimentato il modello di sviluppo economico e di produzione industriale moderno, ovvero gli idrocarburi, gas e petrolio, di cui il Paese dell’Asia Centrale è straordinariamente dotato. Il terzo, infine, appartiene all’economia postmoderna, nella sua forma distopica della produzione di criptovalute, delle cui “miniere” il Kazakistan è il secondo detentore mondiale. il termine detentore non deve però ingannare: sarebbe più giusto dire che il Paese ospita il secondo maggior numero di produttori di Bitcoin dopo gli Stati Uniti. Le ragioni sono legate a due fattori: l’eccezionale dotazione energetica della repubblica centroasiatica – come sapete, le miniere di criptovalute sono attività energivore (e micidialmente inquinanti) e le condizioni fiscali estremamente favorevoli che il regime ha varato per attrarre le compagnie di moneta elettronica in fuga dalla Cina dopo la stretta di Pechino.
Il massiccio incremento dell’assorbimento di enrgia causato dalla produzione di bitcoin ha messo pressione sulla distribuzione energetica, causando ricorrenti malfunzionamenti. A ciò si è aggiunta la conclusione del processo di “liberalizzazione” del mercato interno del gas e del petrolio, che ha provocato un’impennata dei prezzi del GPL utilizzato per autotrazione e delle bollette del riscaldamento. La fine del prezzo “politico” per l’energia ha prodotto il paradosso per cui, in un Paese che è tra i maggiori produttori mondiali di gas e petrolio, i suoi derivati sono diventati improvvisamente carissimi, e quindi relativamente “scarsi” a causa dell’alto prezzo, insostenibile per moltissime famiglie. “E’ la globalizzazione, bellezza!”: ovvero la liberalizzazione di un mercato interno come quello delle materie prime, implica, quasi inevitabilmente, la spinta al riallineamento dei prezzi verso quelli del mercato internazionale.
La distopia del mercato unico globale, guidata dalle nuove tecnologie informatiche e dalla promessa degli algoritmi di poter fare a meno di qualunque impiccio anche solo formale e residuo derivato dalla sovranità è entrato in collisione con il dispotismo politico, quello che si illudeva di regolare i rapporti tra la popolazione e le risorse del territorio e i grandi e i nuovi soggetti dell’economia moderna e postmoderna: cosa che oggettivamente era stato in grado di fare per oltre trent’anni. Il clan si accontentava di tosare abbondantemente i profitti, di controllare – insieme e grazie al potere politico esclusivo – tutte le risorse economiche, così da ricavarne una rendita perpetua.
La triangolazione tra dispotismo politico, globalizzazione e distopia economica si è rivelata troppo instabile, forse insostenibile. In termini locali ha rivelato il progressivo, ma rapido logoramento, del sistema di potere clanico e dispotico, che ha dovuto fare ricorso all’ex potenza coloniale russa per resistere e che forse vedrà comunque un riassetto interno. Come al solito, in Occidente, siamo caduti dal pero, colti dall’improvvisa esplosione di rivolte, vittime della nostra falsa coscienza, che sa benissimo che i regimi autocratici svolgono la gran parte della repressione nell’ombra, e che il ricorso plateale alla violenza repressiva è un sintomo della gravità raggiunta dalla crisi politica e sociale.
In termini globali attesta che tutti i regimi politici – autocratici o democratici che siano – sono comunque sottoposti a torsione dalla lunga fase di iperglobalizzazione che rimonta ormai a oltre trent’anni fa. Le torsioni cui il turbocapitalismo sottopone tutte le società, a prescindere dalla forma di organizzazione politico-istituzionale. Nelle democrazie si traducono spesso nel sostegno a gruppi politici sovranisti, xenofobi e populisti, che trovano nello stigma verso l’alieno, lo straniero, il nemico esterno (l’out-group)lo stratagemma per ricompattare fittiziamente il popolo (l’in-group), in realtà nascondendone la perdita di reddito, diritti e soggettività e riducendolo a mero predellino per la propria ascesa al potere. I sistemi autoritari impiegano la violenza della repressione oscura e silente e, quando non basta, quando le rivolte infine scoppiano, passano alle maniere forti, nella consapevolezza che sono in grado di applicare molta più violenza, per più tempo e più platealmente rispetto ai regimi democratici.
L’anniversario dell’assalto a Capitol Hill dovrebbe però ricordarci che nessun sistema, neppure le democrazie consolidate, è al sicuro da esplosioni di rivolta e tentativi di colpo di stato: perché tutti i sistemi stanno perdendo la sfida di governare equamente gli effetti politici, economici e sociali di iperglobalizzazione, innovazione tecnologica e distruzione ecologica. Si tratta di temi che sfidano contemporaneamente il sistema internazionale nel suo complesso, costringendolo a dove trovare un difficile equilibrio tra imperativo di cooperare per salvaguardare il pianeta e l’umanità (anche tra regimi diversi, rivali e persino ostili) e necessità di mantenere alta la guardia (proprio perché la sicurezza politico-militare è figlia di un processo diverso in cui le differenze di regime contano). La speranza – e la scommessa – più grande e verso la quale occorre far convergere i nostri sforzi, è che questa riconciliazione possa avvenire prima che sia troppo tardi e nel nome di una centralità dell’umano e dei suoi diritti in armonia come quelli dell’ecosistema di cui siamo parte.