La sola idea di nascondere i dati quotidiani dei contagi da COVID è con ogni evidenza del tutto indecente: una società aperta non si difende certo dai suoi problemi con le censure – e in generale un’opinione pubblica adulta ha bisogno di più dati, non di meno dati.
Ma un problema, come società, appunto lo abbiamo: perché quel dato specifico – con tutti i suoi effetti sul sentiment del Paese, delle persone – prima conteneva una cosa e ora ne contiene un’altra.
Banalmente, prima ci diceva che più del 2% degli infettati nel giro di qualche settimana sarebbero morti, mentre oggi la letalità è ancora incerta nei dettagli ma comunque molto, molto più bassa, grazie al combinato disposto tra la minore aggressività della variante e la grande quantità di vaccinati.
Lo stesso dicasi per il rapporto tra positivi e ospedalizzazioni/terapie intensive: oggi la percentuale di chi ci finisce è molto più bassa rispetto a un anno fa.
Quindi quel dato – i contagi quotidiani – ha un significato diverso rispetto all’era pre-Omicron e pre-vaccini. Questo fatto rende evidente che il problema di cui sopra non riguarda il Ministero della Salute né altre istituzioni sanitarie che forniscono il dato e devono continuare a farlo.
Riguarda invece la sua contestualizzazione, che ne determina la ri-significazione. In altre parole, riguarda la comunicazione, i media. Intesi prima di tutto come media “professionali” ma più in generale chiunque fa comunicazione, cioè quasi tutti, sui social ma non solo.
Siamo in grado di non snocciolare e distribuire ogni sera quel numero come termometro (unico o quasi, comunque fondamentale!) della febbre virale?
Siamo capaci – noi dei media, ma più o meno tutti – di inserirlo nel suo nuovo contesto?
E soprattutto, vogliamo farlo o preferiamo strillarlo ogni sera perché “fa titolo”, quindi fa comodo, magari in un giorno moscio anche per la politica e per il pallone, quando quindi c’è poco altro per titolare?
Ecco: noi giornalisti (e non) abbiamo sacrosanta ragione quando ci incazziamo per ogni ipotesi di censura. Ma abbiamo totale torto quando poi subordiniamo alla logica del clic – o comunque del titolo choc – non solo la responsabilità sociale, ma anche l’onestà intellettuale.