Noi italiani siamo giustamente abituati ad avere un’altissima considerazione della nostra lingua: la lingua di Dante e di Leopardi, amiamo dire (e di Andrea Zanzotto e Luciano Erba, aggiungerei io), una lingua la cui musicalità ed espressività balzano agli occhi, o meglio alle orecchie.
C’è però un aspetto di cui forse non siamo così consapevoli, ed è la relativa imprecisione dell’italiano: ne avevo già accennato qualche anno fa nella postfazione a un romanzo che avevo tradotto (“una lingua dal lessico piuttosto impreciso e niente affatto frugale nella sintassi”, avevo scritto – e mi scuso per l’inelegante autocitazione) e in un paio di occasioni sono stato bonariamente sgridato per averlo scritto. Ma siccome ho la testa dura, provo a spiegare meglio ciò che intendevo, facendo qualche confronto con il “cugino primo” dell’italiano, il castigliano, o spagnolo che dir si voglia.
Qualsiasi ispanofono che inizi a masticare un po’ di italiano si stupisce dell’assenza della distinzione, fondamentale nella sua lingua, tra ser e estar: noi per lo più traduciamo entrambi con il verbo essere, ma mentre ser si riferisce a una condizioni intrinseca o durevole, estar è qualcosa di legato al momento preciso in cui si parla. Per esempio: una persona es blanca quando è di etnia caucasica, está blanca quando non è abbronzata (da questo punto di vista il fatto che si dica estar muerto e non ser muerto sembra una contraddizione, ma in realtà forse lascia intravedere il retaggio cattolico della morte come condizione temporanea in attesa dell’Apocalisse, con buona pace di chi ha una visione atea della morte come condizione definitiva).
Un’altra sottile “imprecisione” dell’italiano, che colpisce le persone di madrelingua spagnola, è che mentre noi diciamo sempre dover fare qualcosa, gli spagnoli usano deber se chi parla riconosce che il “dovere” dipende esclusivamente da lui, oppure tener que se il “dovere” dipende dalla situazione esterna: suona complicato – e nella vita di tutti i giorni non sempre la regola è applicata rigorosamente – ma per capirlo basta pensare alla differenza tra “Hai già trent’anni, devi trovarti un lavoro” (deber) e “Siamo senza un soldo, devi trovarti un lavoro” (tener que).
Ci sono poi le “imprecisioni” lessicali: l’italiano usa lo stesso termine nipote per indicare due diversi gradi di parentela, una distinzione evidente non solo in castigliano (il sobrino è il figlio di un fratello e il nieto è il figlio di un figlio), ma anche in tutte le altre lingue che conosco.
Concludo questa carrellata con un paio di parole che in italiano non esistono e che in spagnolo trovo irresistibili: la prima è l’aggettivo enamoradizo, che indica una persona di cui noi diremmo “ha l’innamoramento facile”; la seconda è resultón –termine analogo, ma non esattamente sinonimo del più noto guapo– che il dizionario della Real Academia Española (una specie di mix tra l’Accademia della Crusca e la Treccani) definisce semplicemente come persona “che piace per il suo aspetto gradevole”; nell’uso comune però indica una persona che da lontano sembra bellissima, ma da vicino non è poi ’sto granché.
Resta solo un dubbio: Mario Draghi è guapo o resultón?