A me il calcio piace. Mi piace da quando mio padre, fortunato genitore di tre femmine, decise di portarmi allo stadio, scegliendo me tra le figlie. Ho condiviso con lui un’infinità di domeniche pomeriggio che cominciavano un paio d’ore prima della partita – si andava presto e si lasciava la macchina lontano per evitare l’ingorgo all’uscita e non perdere la voce di Sandro Ciotti – e finivano a casa con la cioccolata calda, il secondo tempo di una partita di serie A – noi militavamo coraggiosamente tra B e C – e la malinconia del lunedì che si approssimava. Molti anni dopo, per una partita decisiva della Reggina per la promozione in A, ho preso un aereo e sono scappata allo stadio: mio padre non c’era più e volevo esserci io. In serie A, quella volta, ci siamo andati, ma non rimasti.
Poi mi piace e mi commuove vedere la Nazionale quando gioca in paesi di forte emigrazione italiana: a Londra, come sarà domani per la finale con l’Inghilterra, a Monaco com’è stato in questi campionati europei. Guardo i tifosi soffrire sugli spalti e penso alle loro vite e mi vengono in mente cose che non condivido del tutto: come sa di sale lo pane altrui, le radici e via dicendo. I miei figli mi prendono in giro e dicono che mi commuovo per i giovani broker della finanza pieni di soldi, pensando che siano parte del nuovo proletariato globale sradicato dal capitalismo cattivo. Sono cinici.
Il calcio mi piace tutto: quello ‘grande’ dei campioni – geometrie, velocità, pathos – e quello dei piccoli all’oratorio o dei ragazzi al campetto. In questo sono stata contagiata dalla felicità di mio figlio ogniqualvolta tocca un pallone: ha cominciato a quattro anni e non ha smesso. L’ultimo ricordo di Londra, prima della pandemia, è la sua partita con gli altri ragazzi dell’Inter club in un campo sotto un enorme cavalcavia. C’era un pezzo di mondo lì, vedi paragrafo precedente: loro vincevano e se le davano con i francesi del club del Paris Saint Germain, accanto c’era un accesissimo match tra sudamericani.
Il calcio a un certo punto mi ha stancato: ce n’era troppo, troppa enfasi, troppa televisione, troppo ne parlavano, persino a distanza, i maschi di casa, e poi tutto quel che sappiamo, troppi soldi, schifezze varie, insomma basta. Niente stadio da molti anni, solo qualche occhiata distratta alle partite in tv, meglio una serie, un libro, un’altra stanza.
E poi, invece, sono arrivate le ragazze. Due anni fa, ai mondiali. Sara Gama, Barbara Bonansea, la loro straordinaria allenatrice Milena Bartolini. Ricordate che bella impresa, che gioco, che intelligenza, che misura dentro e fuori dal campo. E io mi sono innamorata di nuovo e ho tifato di nuovo. Ho riscoperto una passione, che regalo. E a Wembley, come tanti, soffrirò, penserò al pane altrui e mi commuoverò. (Forse persino sentendo l’inno, ma farò finta di niente.)