Eccoci all’ultima puntata del mio reportage sull’ISHS Conference, l’annuale conferenza dell’International Society of Humour Studies (tradotto: la Società Internazionale di studi sull’Umorismo), nel quale vi riporto, come tutti gli influencers che si rispettino, gli interventi più interessanti cui ho assistito. Tanto in teatro non sta succedendo niente di interessante, e neanche a scuola, se si esclude la proposta di “Expert: gli esperti siamo noi” con cui si pensa di formare e aggiornare in futuro i docenti. Sigh!
L’ultima puntata è quella in cui si parla della parte dura, pesa, sostanziosa: umorismo e Artificial Intelligence, siòre e siòri.
Tra i vari interventi, il professor Juan Carlos Farah ha raccontato un po’ a che punto è la ricerca in questo campo, osando, ardito, inerpicarsi a rispondere all’annosa domanda “i computer riusciranno mai a scrivere delle battute che facciano ridere?” Sostanzialmente, la sua posizione è che battute “in senso tecnico”, sì (cioè costruite come tali e con tutti i loro elementi costituivi riconoscibili); “buone battute”, al momento, no. Del resto, si sa essere questo il terreno linguistico su cui i computer fanno e faranno più fatica: il linguaggio figurato, i doppi sensi, la pragmatica… Certo, limitatamente alla creazione di semplici giochi di parole, esistono già dei software che producono risultati soddisfacenti, anche se più vicini all’enigmistica che all’umorismo: applicando la “Semantic script theory of humour” di Raskin, per esempio, si può istruire un computer a produrre un pun, sulla base del principio della maggior somiglianza fonologica possibile tra le parole con cui si voglia creare ambiguità semantica a fini umoristici: “The Loch Ness Monster eats fish and ships”/ “The Loch Ness Monster eats fish and chips” (e sempre per questo aspetto, da segnalare il programma messo a punto dal Dipartimento di Intelligenza Artificiale dell’Università di Edinburgo, JAPE, che genera battute sotto forma di indovinelli con giochi di parole).
Ma per altri tipi di umorismo? Un tentativo in questo senso è stato il software Humour Processor, che, più che creare battute, offre in due finestre affiancate sullo schermo una serie di frasi che, accoppiate, possono generare effetti comici (ecco un battura creata con questo software: “La settimana scorsa stavo così male che il dottore, appena mi ha visto, si è fatto un’iniezione”). Al momento, le ricerche più ardite sembrano essere quelle di Ray Gonzalez, ricercatore dell’Università del Texas. Costui ha creato un “Generator” di punch-line: tu scrivi il set-up (“l’alzata”) e il generatore ti propone la chiusa, all’interno di un campo semantico dato. E quindi nella dimostrazione al pubblico, il nostro eroe ha chiesto un argomento a piacere su cui testare lì, durante la conferenza e davanti a tutti, la macchina; allora il pubblico ha proposto “pizza”; quindi, dopo aver inserito la set-up line “la pizza che ho mangiato ieri era talmente indigesta che…”, il generatore ha tirato fuori, più o meno, un “…sarà sicuramente proposta come nuova arma di distruzione di massa”. Boh… Cioè, carina, per essere venuta fuori da un computer (e qualche sedicente autore che non arriva a questo livello, l’ho conosciuto), ma sulle battute credo continueremo a preferire per molto tempo l’umano artigianato del forno a legna.
L’ultimo giorno sono stati conferiti i prestigiosi “Christie Davies Awards”, cioè i premi ai ricercatori le cui pubblicazioni sono state giudicate, per quest’anno, le più interessanti in materia umoristica. Si è partiti con Dick Zijp, della Utrecht Univesity, con “Those who laugh as a body today, will march as a body tomorrow”, uno studio che dimostra come l’umorismo si sia rivelato collante non trascurabile per battaglie volte al riconoscimento di vari diritti civili; poi Katarina Zacharopoulou, della University College London, che nel suo “Designing for amusement: from the intention to the interpretation of humour” ci ha guidati in un curioso percorso a cavallo tra umorismo e architettura; e Nikita Labanov, dell’Università di Bologna, che in “Humour, hate crimes and British radical right users on Twitter” che ha analizzato il rapporto sui social tra umorismo e hate speech nel Regno Unito, specialmente nel lasso temporale del compimento della Brexit.
Chiudo con lo studio di Guillem Castanar, dell’Università di Pietroburgo, non solo perché con questa spassosissima personcina ho chiacchierato amabilmente per tutta la cena finale dell’ultima serata, ma anche perché particolarissima era la sua ricerca: in “Target in Post-Socialist and Russian ethnic jokes: critical humour and the politics of community”, egli è andato a studiare e catalogare tutti i casi di barzellette in cui i personaggi sono identificati con la semplice appartenenza a una certa nazione: per capirci, da noi quelle che iniziano con lo schema “C’è un italiano, un francese e un tedesco…”. Ebbene, in ogni paese sono diffuse queste barzellette (così come in ogni nazione esiste una certa categoria di persone che, per antonomasia, nelle barzellette ha l’ingrato e ingiurioso compito di “incarnare” la stupidità: in Canada e Usa le bionde, in Italia i Carabinieri, in Francia i Belgi, in Inghilterra la ragazze dell’Essex, in Finlandia i Kareliani, in Olanda… i batteristi!): nello specifico delle barzellette “a tre nazionalità”, quasi sempre, è endogeno il punch-line maker (cioè se la barzelletta è raccontata in Russia, è al russo che sarà assegnato il ruolo del “furbo” che la chiude, se in Germania al tedesco, ecc., e così via. Come del resto, è da noi…). Più interessante è, in ogni Paese, andare a vedere di che nazionalità sono i primi due, quelli a cui sono affidati i ruoli di “perdenti”; quasi sempre, in tutto il mondo si parte con “C’è un inglese…” (ma curioso che in Italia, praticamente mai) e, al secondo posto, è una lotta all’ultimo sangue tra “…un francese” e “…un tedesco”. Pensavo: che la Brexit dipenda un po’ anche da questo?
La cena dell’ultima sera, dicevo. Solo per dire che è tradizione improvvisare una gara di battute; così, come caloroso e benaugurante invito alla conferenza dell’anno successivo. Io ho partecipato con una battuta che ho sentito dire spesso all’amico Germano Lanzoni, alias “Milanese Imbruttito”, e cioè “In Italia spendiamo più denaro in ricerche sul Viagra che per curare l’Alzheimer: perciò tra vent’anni avremo tutti un pene durissimo, ma non ci ricorderemo dove metterlo”. Ma ha vinto un tizio di non so che nazionalità con questa qui: “Qual è la parte più dura da mangiare di un vegetale? La sedia a rotelle”. Bene così.
Ci si vede a Boston, alla prossima International Society of Humour Studies Conference, dal 3 al 7 luglio 2023.
Magari sarà pieno di italiani, chi lo sa…
Finisce qui non solo questo reportage (spero vi sia piaciuto, e che sia stato utile a fornire qualche strumento per discettare in termini più tecnici di comicità… insomma, fatemi sapere!), ma anche quest’anno di articoli: comincia infatti la mia pausa estiva da questo blog.
Ci si vede a settembre!
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