Io su Olocausto e Giornata della Memoria non sono sicuro di sapere cosa dire.
Il primo istinto suggerirebbe nient’altro che il silenzio, relazionandosi a quell’immane buco nero della civiltà umana che è stata la Shoah. Poi però senti che qualcuno certe idee bislacche le ripropone, che non lo fa neanche tanto velatamente, che certi nostri politici su questa questione sembrano non puntare all’ “Oscar della Chiarezza”, che da certe curve partono di quei cori ti lasciano un po’ interdetto, che per certi ragazzi persino l’ignoranza ha acquisito quasi una sorta di fascino… e allora è un attimo che cambi idea. E il monito di Primo Levi “affinché non accada più” costringe a riflessioni diverse: a cercarle, invece, le parole. Che poi gioco forza per lavoro mi è toccato comunque farlo spesso, su questi argomenti: per scrivere spettacoli, per parlare a lezione ai ragazzi, per provare, da docente, a fare “il mio”. Per raccontare… Ecco, ma appunto, cosa raccontare?
Alla peggio, uno può sempre partire dalle parole. “Shoah”, è termine ebraico sostanzialmente intraducibile: è più di “distruzione”, è più maligno di “annientamento”… insomma, già solo in questo si sente la fatica del tentativo di tradurre quel nulla che resta, quell’indicibile opera di azzeramento, di nullificazione. E quasi ci si arrende all’impossibilità dei termini a star dietro a certe cose.
E quindi si prova anche con le immagini. E mi sono fatto negli anni un’idea un po’ tutta mia, e cioè che la solita proposta iconografica, cioè la carrellata di derelitte creature scheletriche, così come le trovarono gli Alleati nei lager, contrapposta a quella dell’ostentazione brutale di forza delle adunate di Norimberga, non funzioni più così tanto. Ché magari a qualche giovane mente scapestrata salterebbe il ghiribizzo antipietistico di concludere: “Ovvio che stavano vincendo quelli lì: erano più forti” (quando non proprio “Sarebbe stato giusto che avessero vinto loro”: m’è già capitato di sentirle in classe, frasi come queste…). Anche le visite ad Auschwitz sembrano aver e perso il valore d’un tempo: chi c’è stato lo sa e ha potuto sentire quanto, persino lì, si sia intrufolato insopportabile il tanfo nefasto della visita turistica smacchiacoscienza. Perché siam sempre là: i potentissimi cattivoni coi mitra da una parte, e le impalpabili larve alla loro ultima bava di vita dall’altra, in una narrazione che rischia di titillare, nell’inconscio dello spirito adolescenziale naturalmente oppositivo e sacrilego, reazioni sadicamente contrarie.
(A proposito: per quanto generi tanta soddisfazione rimbrottare Benigni sul falso storico dei “carri armati americani” de “La vita è bella” che liberano il campo di Auschwitz – ma dov’è specificato, nel film, che sarebbe ambientato ad Auschwitz? -, è doveroso ricordare che i Sovietici sì, arrivarono a Berlino, liberarono Auschwitz e i campi di Stutthof, Sachsenhausen e Ravensbrück; ma gli Americani liberarono Buchenwald, Flossenbürg, Dachau e Mauthausen, mentre gli inglesi Neuengamme e Bergen-Belsen).
Ma tralasciamo la provenienza dei liberatori per tornare al punto principale, ciòè il tentativo didattico di andare oltre quelle solite immagini di esserini smunti. E allora si potrebbe rischiare, fare altro. Anzi, far proprio il contrario. È tosta, lo so, però si azzarda, si può provare.
Si potrebbe presentare ad alunne e alunni la foto di Adolf Hitler da piccolo, anzi piccolissimo, seguita da quella dei suoi (brutti, ma brutti brutti) dipinti realizzati quando era un giovane aspirante pittore all’Accademia d’Arte di Vienna (e ve lo immaginate il burbero professore che lo stronca suggerendogli di “smettere di torturare l’umanità con quelle croste e di dedicarsi ad altro”?). E, subito dopo, mostrare le immagini di possenti atleti spazzati via dalla follia dell’odio nel pieno della loro prestanza fisica: Leone Jacovacci, Johann “Rukele” Trollmann, Alfred Nakache, Victor Perez, Angelo Anticoli (cui è dedicata anche una pietra d’inciampo). Tutti pugili (tranne Nakache, nuotatore), tutti che picchiavano duro: però belli, alti, eleganti e fighi. Tutti, nel pieno dei loro anni floridi, vittime del nazismo in quanto ebrei, rom, neri.
Perchè? Be’, magari facendo così, invece, qualche alunno fa due più due e gli salta in zucca il pensiero che forse quello scricciolo lì, a quelle statue greche, mica poteva far nulla, da solo, se qualcuno non gli veniva dietro, se non gli obbedivano, se non si fosse tirato dietro una nazione. Che è stata un po’ colpa di tutti: e che uno deve metterci attenzione costante perché quella roba lì non ritorni. Da solo non ce l’avrebbe fatta, lo hanno assecondato, o quanto meno glielo hanno permesso. Ah già, sì, ecco, l’indifferenza, giusto! Quella spesso vituperata da Liliana Segre, quella parola scritta al Binario 21. E la Segre ripete pure spesso che il dovere della memoria deve essere accompagnato anche dal tentativo di riproporne in modi sempre nuovi – e più adatti ai tempi – celebrazioni, memorie e narrazioni.
Tutta questa riflessione è sorta in me qualche mese fa, bighellonando a zonzo su Instagram (non so se riesco a spiegarvi il collegamento, ma ci provo, perchè secondo me c’è). Sapete, io sono follower di tutte le più celebri e luccicantissime Influencer (spesso idoli dei nostri alunni), le quali mostrano, un giorno sì e l’altro pure, spianate di pelle nuda liberamente tratte da’ loro corpi turgidi, condite da gustose didascalie sull’inimitabil vivere nei loro viaggi intorno al mondo col tipo amorosodudùdadaàcheilloroamoreèilpiùforteditutti e cheioeteunacosasola, ioetecontortuttigliinvidiosi #noidue, e via così di glassa melensa da diabete verbale. Io le seguo tutte, non me ne perdo una, ma un giorno mi sono imbattuto in questa qua che parlava del week-end a Berlino con il suo cucciolottoamoroso, con cui ha pensato bene di farsi una foto. Direte voi: e allora? Be’, la suddetta foto della “coppia piùbelladelmondo&cheglidispiaceperglialtri” , questi due se la son fatta nel Memoriale dell’Olocausto, con le 2.771 colonne poste a imperitura memoria delle vittime. Sotto la foto, un sacco di like dei followers, e nessuno che commentasse “Ma lo sapete dove eravate esattamente quando avete fatto quella foto lì?”…
E io lì ho pensato che la responsabilità, la sempiterna e vigile tensione civile affinchè “tutto ciò non si ripeta”, quella che vorremmo inculcare nei ragazzi, passa anche dalla capacità di renderli consapevoli su che cosa stanno pigiando “like”. E siccome oggi dovevo progettare un’attività in classe sulla “Giornata della Memoria”, e allora, appunto, me ne sono ricordato…
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