La constatazione dei limiti della globalizzazione nel produrre benessere diffuso, poi la pandemia e infine il conflitto russo-ucraino hanno innescato trasformazioni e ripensamenti che incidono sul sistema di regolazione del commercio globale pensato negli anni ’90, intaccando in particolar modo il WTO (World Trade Organization). Nato a Ginevra nel 1995, il WTO avrebbe dovuto stabilire le regole comuni e sanzionare gli eventuali trasgressori tra i 164 Paesi membri e i 23 osservatori (praticamente il mondo intero, con l’eccezione di Corea del Nord, Eritrea, San Marino e pochi altri Stati).
Il primo “picconatore” del WTO è stato Donald Trump, che lo ha accusato di non essere imparziale: di fatto, il WTO si limitava a non avallare il ritorno dei dazi o l’imposizione di sanzioni economiche non giustificate, come quelle varate dagli Stati Uniti di Trump nei confronti della Cina. Poi, per l’organismo multilaterale fare il proprio lavoro è diventato sempre più complicato: durante la pandemia, l’emergenza ha determinato un “ritorno” prepotente della centralità degli Stati e ha fatto saltare quasi tutte le regole a tutela della libera concorrenza; ora con Joe Biden si sta ripetendo lo stesso copione della presidenza Trump. Gli Stati Uniti a guida democratica, infatti, non hanno compiuto alcun passo indietro rispetto alle sanzioni e ai dazi imposti dall’amministrazione repubblicana. Recentemente sono stati condannati dal WTO per la loro politica di sussidi all’acciaio e all’alluminio e, fatto ancora più rilevante, il WTO ha stabilito che le loro ritorsioni contro la Cina non sono giustificate in quanto non è in pericolo la sicurezza nazionale, unico motivo che potrebbe giustificarle.
Mai, prima d’ora, un organismo internazionale aveva espresso un parere sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il pronunciamento ha scatenato la reazione piccata del governo di Washington, ma in realtà il WTO avrebbe ragione: negli accordi tra i Paesi aderenti all’organismo si era deciso di non evocare mai come pretesto la difesa degli interessi nazionali, perché ciò avrebbe reso inutile l’intero sistema; in caso contrario, chiunque avrebbe potuto bloccare le decisioni “scomode” in nome della propria sicurezza. Questo dibattito, apparentemente molto tecnico, è in realtà fortemente politico. Attorno al WTO sono esplose le contraddizioni tra un sistema di relazioni commerciali pensato ai tempi d’oro della globalizzazione e l’odierna economia-mondo, caratterizzata da colli di bottiglia che inceppano la libera circolazione delle merci. Se allarghiamo ulteriormente lo sguardo, gli Stati si stanno riprendendo la delega in bianco che, nell’ultimo decennio del secolo scorso, avevano concesso all’economia, e ai grandi gruppi privati. Oggi nessuno crede più che lo Stato debba ridimensionarsi e rinunciare al suo ruolo di indirizzo sui temi dell’economia, dell’ambiente o del lavoro. È questa la ragione per cui sta saltando in aria l’architettura globalista che immaginava un solo mercato mondiale, grande e aperto. Vengono invece ripristinati strumenti antichi come i dazi e le sanzioni senza giusta causa, le sovvenzioni, le penalizzazioni delle importazioni, nel tentativo di ricostruire una sovranità economica che, in realtà, è andata persa da tempo. Ed è questa la grande contraddizione dei nostri tempi: da un lato si torna a pensare, nel bene o nel male, al ruolo di una politica regolatrice e interventista, ma dall’altro non ci sono gli strumenti adatti per implementarla. E gli strumenti vecchi che cerchiamo di recuperare e riadattare, a partire dai dazi, diventano boomerang e finiscono con il danneggiare chi li adopera. Perché, volenti o nolenti, la nostra realtà è diventata globale: la chiave di volta sarebbe un forte impegno per la riforma del sistema multilaterale, invece si sta imboccando la vecchia, fallimentare scorciatoia autarchica.