Perché mai un blog in cui si ragiona di parole (tradotte) dovrebbe interessare chi nella vita si occupa d’altro? Provo a spiegarlo partendo da un esempio:
Quand’è la prima volta che avete sentito parlare di un concetto oggi universalmente noto come lo è il Gay Pride? Probabilmente la risposta è: in occasione del corteo di Roma nel giugno del 2000. Di sicuro ancora nel 1986, traducendo una raccolta di racconti destinata a un enorme successo come Ballo di famiglia di David Leavitt, una grande professionista come Delfina Vezzoli aveva scelto di tradure Gay Pride con il generico “una manifestazione di gay”: fino a quel momento in Italia l’omosessualità era quasi un concetto astratto; la maggior parte dei nostri concittadini non aveva mai conosciuto un omosessuale in carne e ossa, tantomeno un gay dichiarato; gli omosessuali erano solo macchiette oppure figure in tragico conflitto con se stesse, come Pasolini.
Quando nell’autunno del 2020 un editore milanese mi ha chiesto di ritradurre quel libro, che nel frattempo era diventato uno dei caposaldi identitari di un’intera generazione di gay, non mi aspettavo che mi sarei ritrovato su una vera e propria macchina del tempo: nei 35 anni trascorsi dalla prima edizione italiana, il Paese aveva scoperto l’esistenza delle persone omosessuali e questa scoperta è stata innanzi tutto l’acquisizione di un lessico: oggi outing e coming out sono voci del dizionario Treccani (anche se si fa spesso confusione tra i due concetti) e si considera acquisita (o comunque facilmente “googlabile”) gran parte della terminologia di un mondo, dei suoi riti sociali e delle sue pratiche sessuali. Insomma, ci sono voluti decenni e una piccola rivoluzione lessicale perché la nostra società prendesse atto che la vita di ogni gay non è di per sé né una farsa né una tragedia (peraltro ancora oggi siamo ben lungi dall’esserci liberati da un certo pasolinismo kitsch). In questo senso il mio lavoro di ritraduzione è stato molto più semplice di quello della collega: lei si era spesso dovuta sobbarcare un doppio passaggio, quello dall’inglese all’italiano e quello dal “gergo gay” a una lingua comprensibile a qualunque lettore; nel mio caso invece il secondo passaggio i lettori hanno imparato a farselo da sé.
Ecco, la traduzione è questo: non un meccanico sostituire un termine straniero con un termine italiano, ma il traslocare parole e concetti da un tempo a un altro, oltre che da un luogo a un altro. Da questo punto di vista il traduttore non compie questa operazione al posto nostro, ma si limita ad assisterci in un’operazione che compiamo autonomamente –per lo più senza rendercene conto– infinite volte ogni giorno. Ed è per questo che riflettere sulle motivazioni (ideologiche, culturali, sociali, estetiche, etc.) e soprattutto sugli effetti di questo “traslocare parole e concetti” potrebbe interessare anche chi non si occupa (consapevolmente) di traduzione.