Penso a te, mia cara Olympe, che sei stata tra le prime e così lucida e così coraggiosa. Penso al tuo ‘Uomo, dimmi. Chi ti ha concesso la suprema autorità di opprimere il mio sesso?’.
Penso alle donne, alle bambine, alle mamme che sono morte poco lontano dalla spiaggia di Cutro e a quelle che si sono salvate. A quelle che sono andate a cercarle, a quelle che le hanno aiutate. Un nome per tutte, Torpekay Amarkhel, giornalista afgana, morta anche lei.
Penso a Masha Amini e a tutte le altre iraniane e allo slogan bellissimo ‘Donna, vita , libertà’ che le porta in piazza e che ha fatto da traino anche agli altri, agli uomini.
Penso al mio Pantheon di donne, a quanto mi ha dato, e so che per fortuna è affollato e aumenta sempre: le scrittrici, le poete – penso a Patrizia Cavalli e a Szymborska – le attrici, le artiste, tutte quelle che hanno pensato, lottato, cambiato.
Penso che ‘Le nuotatrici’ sia un bellissimo film e che vedere una donna che nuota mi ha sempre dato una sensazione straordinaria di potenza e libertà.
Penso al coraggio delle donne in guerra, alle ucraine che sono scappate con i figli, a quelle che poi sono tornate indietro perché la vita si può strappare fino ad un certo punto. E rivolevano la loro.
Penso che mi piacerebbe che le donne fossero più spettinate. E che avessero una stanza tutta per sé.
Penso alle raccoglitrici di olive e alle gelsominaie calabresi degli anni Cinquanta, le ho viste qui e qui.
Penso alle mie amiche, alle donne della mia famiglia che è una famiglia di tante donne molto diverse tra loro, alle tante con cui ho fatto cose, – manifestazioni, seminari, documenti, riunioni, libri, giornali ma anche parmigiane di melanzane, risate e discorsi mai finiti.
Penso che le donne dovrebbero disubbidire di più, dovrebbero curare la tristezza con la cioccolata – e non stare perennemente a dieta – e ridere in faccia ai passanti. (Grazie sempre Marina Cvetaeva).
Penso a mia figlia, alla scommessa delle ragazze e sono piena di orgoglio per loro.
Penso a mio figlio e spero di essere stata una buona madre di un maschio. E’ importante.
Penso che oggi si litiga tra i femminismi su tanti temi, e penso che anche il conflitto più necessario vada esercitato con intelligenza e cura reciproca.
Penso a mia madre che non c’è più e mi ha consegnato molte cose preziose, il gusto del pensare con la propria testa, ma anche i fiori e il Mitsouko.
Penso alle porte chiuse in faccia e a quelle aperte o tenute socchiuse, a forza, perché entri almeno un po’ di speranza nei momenti bui. Le donne lo sanno fare.
Penso a me che invecchio, che un po’ mi odio e un po’ mi faccio tenerezza. Ma penso che è stato sempre così.
Penso ai numeri, a me piacciono: dicono i numeri che ci sono tanti gap da superare, che i diritti delle donne arretrano, che ci vogliono più di 130 anni per raggiungere la parità di genere, che le donne trovano mille ostacoli: a vivere, a lavorare, a studiare, a fare figli e a non farli, ad essere come vogliono, a decidere, a comandare. E che anche tutto questo è molto diseguale e la differenza la fanno i passaporti, i soldi, la parte del mondo in cui nasci. Dicono anche che le donne sono dappertutto, però.
Penso a Jacky Fleming e alle sue donnine che si recuperano l’una con l’altra dalla pattumiera della storia in cui gli uomini le hanno cacciate.
Penso con invidia a chi sa ricamare, tessere, cucire. (Quando sei triste, usa le mani. O prendi un libro).
Penso che forse non avrei dovuto mettere in fila questi pensieri disordinati e forse un po’ retorici, ma sentirmi parte di questa catena lunghissima e solida di donne mi dà forza e fa del mio 8 marzo, un giorno di gratitudine: per quelle prima, per quelle accanto, per quelle che cammineranno dopo.