Sante parole

Una lingua madre adottiva per le figlie dell’URSS in frantumi

Da sempre esistono autori che scelgono di scrivere in una lingua diversa dalla loro lingua madre, basti pensare a due giganti della letteratura come Joseph Conrad e Vladimir Nabokov. Per lo più si tratta di scelte legate al contesto storico-politico in cui gli autori vivono (anche se evidentemente tutto ciò che riguarda il principale strumento di lavoro di uno scrittore ha sempre delle implicazioni molto personali, addirittura intime), tanto che storicamente il fenomeno è circoscritto alle lingue delle grandi potenze coloniali, inglese soprattutto, ma anche russo e francese e, in misura decisamente minore, portoghese e spagnolo.

Negli ultimi trent’anni, però, il crollo dell’Unione Sovietica ha determinato un fenomeno nuovo e molto interessante: la nascita di una letteratura in lingua tedesca di autori provenienti dalle repubbliche ex-sovietiche. Il caso più eclatante è il successo di Nino Haratischwili, che con il suo L’ottava vita (edito in Italia da Marsilio), una saga familiare che è un vero e proprio affresco del “secolo rosso”, ha scalato le classifiche di mezzo mondo. Haratischwili però non è che la punta dell’iceberg, un iceberg che da anni viene scandagliato da diversi editori, tra cui spicca per passione e competenza Keller, un editore indipendente con sede a Rovereto.

Si tratta per lo più di donne tra i trenta e i quarant’anni, nei cui testi l’esperienza dell’emigrazione ha un’importanza determinante, ma di solito inquadrata come capitolo del proprio “romanzo di formazione”, senza particolari rimpianti per la Heimat perduta (visto che parliamo di autrici che scrivono in tedesco, preferisco utilizzare questo termine, piuttosto che un termine politicamente connotato come l’italiano patria o, peggio ancora, il tedesco Vaterland) e di solito anche senza particolare trasporto per il Paese che le ha accolte, tanto che un altro tratto che accomuna queste autrici è la loro grandissima apertura al mondo: un esempio è l’azera Olga Grjasnowa (classe 1984, edita da Keller), che nel suo Tutti i russi amano le betulle parla della guerra tra armeni e azeri che insanguina il suo Paese fin dagli anni Novanta, ma anche di un amore senza lieto fine a Berlino e del tentativo di rifarsi una vita in Israele, mentre nel più recente Dio non è timido racconta la guerra civile in Siria e della fuga verso l’Europa attraverso una Turchia tutt’altro che amichevole.

Un altro esempio è l’incredibile Fuori di sé, dell’ebrea russa Sasha Marianna Salzmann (1985, edita in Italia da Marsilio), romanzo di formazione (ma sarebbe più corretto dire: di costruzione dell’identità) di due gemelli e della loro famiglia, una storia che si dipana tra l’Ucraina durante la Seconda Guerra Mondiale, la Russia sovietica, la Germania degli anni Novanta e la comunità transgender di Istanbul ai tempi della rivolta di Gezi Park. Salzmann peraltro è soprattutto una drammaturga, e il suo testo teatrale più noto, edito in Italia da Cuepress guardacaso si chiama proprio Lingua madre.

E potrei continuare per un bel po’, il menù è variegato e molto, molto invitante: buon appetito!

  • Fabio Cremonesi

    Studi di storia dell'arte medievale, un passato da operaio presso uno spedizioniere, dirigente in una multinazionale delle telecomunicazioni, editore e promotore editoriale, oggi mi dedico alla traduzione a tempo pieno. Le mie lingue di lavoro sono tedesco, inglese e spagnolo (occasionalmente anche portoghese e catalano). Con Le nostre anime di notte di Kent Haruf ho vinto il premio Corriere della Sera-La Lettura per la miglior traduzione del 2017.

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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