Antonio Occhiuzzi, direttore del Istituto per le Teconologie della Costruzione del CNR spiega a Radio Popolare perché il ponte Morandi di Genova è un caso paradigmatico e non poteva durare: “Dovremmo lanciare un piano coraggioso di manutenzione straordinaria e di abbattimenti e ricostruzione di molte opere”.
L’intervista di Claudio Jampaglia a Giorni Migliori.
Il tema di carattere generale è che la rete stradale italiana è stata costruita nella forma in cui viviamo adesso sostanzialmente negli anni della ricostruzione dopo la guerra, quindi gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Con le tecnologie che erano disponibili in quel periodo, la vita utile delle infrastrutture stradale è stimabile in circa 50 anni. Questo significa che se sommo 50 anni alla data di realizzazione di gran parte delle opere infrastrutturali italiani ottengono un dato complesso e preoccupante per cui la gran parte delle infrastrutture italiane e dei ponti sono oggi a fine vita. Questo significa che sarebbe estremamente indispensabile pensare da subito a un’iniziativa di grandissimo respiro che porti all’ammodernamento di queste infrastrutture, che per una parte potrebbero essere rinforzate e per una parte non trascurabile devono essere sostituire. Bisogna avere il coraggio di realizzare il concetto che quanto fu costruito dai nostri padri e dai nostri nonni oggi va sostituito con opere più moderne.
E questo poteva essere il caso del ponte Morandi, visto che il dibattito c’era stato.
Il ponte è un’icona della zona e dell’ingegneria italiana. In qualche modo rappresenta una sorta di metafora del nostro Paese. Nel momento in cui fu concepito e realizzato era un vanto dell’ingegneria civile italiana, che era mostrato e parzialmente esportato in mezzo mondo. Era il momento in cui eravamo indicati come modello positivo. Oggi, 51 anni dopo, abbiamo la fine vita, la decadenza e il crollo: una metafora di questo Paese. Oggettivamente è impossibile pensare di mettere mano a decine di migliaia di ponti contemporaneamente. I criteri di ragionevolezza sono quelli che riguardano l’età di realizzazione e l’individuazione delle arterie nazionali caratterizzate da un traffico più rilevante, come ad esempio la rete autostradale e non solo.
Quando lei ha sentito le polemiche sui rinforzi del cemento e le varie responsabilità attribuite, cosa ha pensato da tecnico?
Il caso di specie credo sia particolarmente illuminante per fare una riflessione. Il viadotto realizzato da Morandi negli anni ’60 è oggetto di studio per generazioni di ingegneri che nelle aule universitarie hanno studiato questo esempio di genialità dell’ingegneria italiana.
Che di fatto, lo ricordiamo, era di fare in cemento quello che prima veniva fatto in ferro.
Sostanzialmente è così, con gli stralli in calcestruzzo invece che in acciaio, ma non è solo questo. È ridurre al mimino l’impatto strutturale. Se lei fa un paragone fra ponti similari osserva che gli elementi strutturali del viadotto Morandi sono ridotti all’osso, è l’esempio massimo di razionalismo. Per superare una zona densamente abitata si è usato il minimo possibile di materiali. Pensiamo che non c’erano i computer, ecco perchè questo caso sgombra il campo da ogni chiacchiera e ogni illazione. Siamo in presenza di un’opera curatissima dal punto di vista concettuale e progettuale. Per la visibilità che aveva all’epoca escluderei problemi di qualità dei materiali, se non le ordinarie problematiche di cantiere. È l’opera più monitorata d’Italia, continuamente sotto osservazione, continuamente controllata eppure è caduta. Vuol dire che non c’è niente da fare, quando si arriva ad un certo punto di vecchiaia occorre provvedere alla demolizione e alla sostituzione con un’altra opera.
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