Stasera, se tutto va come previsto, Bernie Sanders verrà dichiarato vincitore delle primarie del New Hampshire. Tutti i sondaggi lo danno in vantaggio: i più cauti di sette, i più ottimistici di 23 punti. In entrambi i casi, il senatore del Vermont non dovrebbe temere un recupero dell’ultima ora di Hillary Clinton. Qui, in New Hampshire, la Clinton ha fatto campagna massiccia. Qui è appoggiata dall’intera struttura dirigente del partito democratico. Qui, domenica, è arrivato Bill Clinton, che con il garbo che gli è proprio quando c’è di mezzo la moglie ha accusato Sanders di essere “un ipocrita e disonesto”.
Ma tant’è, la campagna di distruzione del senatore Sanders da parte del suo stesso partito non dovrebbe aver funzionato. Quello che è interessante capire ora è la dimensione della vittoria in New Hampshire e quanto questa potrà pesare sul futuro. Più il margine a favore di Sanders è ampio – in questo Stato che confina con il suo Vermont e che presenta un elettore democratico a lui congeniale: bianco, progressista, indipendente – più il senatore può sperare in un effetto valanga. Se invece la Clinton si difende e ottiene un’onorevole sconfitta, le prossime tappe in South Carolina e Nevada non dovrebbero essere un problema. Per lei, ovviamente.
In attesa dei numeri, c’è una realtà che proprio in New Hampshire emerge in modo chiaro. Il senatore Sanders ha mandato all’aria i piani di incoronazione facile e sicura di Hillary Clinton. Nessuno, qualche mese fa, poteva immaginare che Sanders avrebbe costituito una minaccia per l’ex-segretario di stato. Del resto, da Barack Obama in giù, l’intera classe dirigente del partito ha preso posizione per lei. La chair del partito democratico, e fidata clintoniana, Deborah Wasserman Schultz, le aveva confezionato un calendario elettorale perfetto: solo sei dibattiti con Sanders (contro i 26 del 2008), tutti peraltro fissati nei week-end, in modo che li vedesse meno gente possibile.
Sulla Clinton è poi scesa la benedizione di tutti gli apparati locali. Qui in New Hampshire a tirarle la corsa c’è la potentissima senatrice dello Stato, Jeanne Shaheen, la governatrice Maggie Hassan, la deputata Carol Shea-Porter. Stessa cosa, in fondo, è avvenuta in Iowa, dove la Clinton ha contato sull’appoggio della chair del partito, Andrea McGuire, che ha dichiarato vincitrice la Clinton con uno strettissimo margine, rifiutando peraltro di rendere pubblici i risultati. “E’ una tradizione dell’Iowa”, si è giustificata e il Des Moines Register, il giornale locale che pure appoggia la Clinton, ha scritto: “Qualcosa puzza nel partito democratico”.
La mobilitazione pro-Clinton, peraltro, non sorprende. Hillary viene dalla famiglia che ha regnato sul partito democratico e sui suoi finanziatori per i passati trent’anni. Sanders non è nemmeno democratico. Lo scorso novembre il senatore ha ufficializzato la sua entrata nel partito, per poter correre alle primarie. Ma è chiaro che il suo cuore batte altrove. Sanders è, e si è sempre dichiarato, un “socialista” o un “socialdemocratico”. La sua visione della società per classi non c’entra molto con la tradizione del liberalismo democratico. Le sue idee di giustizia sociale e redistribuzione guardano alle democrazie del nord-Europa, più che alla politica fatta in questi anni a Washington. Se vogliamo, Sanders è anche un socialista perfettamente riconoscibile nel panorama americano. Nato a Brooklyn da una famiglia di ebrei polacchi, il suo socialismo si nutre proprio dell’esperienza messianica e egualitaria portata nel Nuovo Mondo dagli ebrei dell’est-Europa. Quando, a inizi anni Sessanta, Sanders ha fatto il viaggio di rito in Israele, è andato a lavorare in un kibbutz socialista di Haifa.
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Pochi potevano credere che un uomo con queste credenziali potesse davvero rappresentare un pericolo. Sanders, in questi anni, ha prosperato perché la sua esperienza politica è rimasta limitata a uno Stato piccolo e pochissimo influente, il Vermont; e perché il partito democratico ha accettato il ruolo di coscienza critica che Sanders ha giocato al Senato: in alcune occasioni votando con i democratici, in altre criticandoli da sinistra. In entrambi i casi, comunque, senza risultare davvero influente. A far scommettere sull’illusorietà della sua sfida c’era poi un argomento incontrovertibile: i soldi. La Clinton – i Clinton, verrebbe da dire – sono i più straordinari collettori di dollari della politica americana. Il super PAC di Hillary, Priorities USA Action, macina quotidianamente donazioni milionarie; americane e internazionali. Il producer israeliano Haim Saban ha per esempio offerto in questi mesi circa 5 milioni di dollari (il suo obiettivo è mettere fine alla campagna per il boicottaggio e disinvestimento da Israele che ha preso piede nei college USA in questi mesi).
Come si vede, la rete di interessi e di poteri in campo è enorme; e tutta a favore di un solo candidato. Quello che il senatore Sanders ha messo in piedi in questi mesi ha dunque un valore enorme. In un certo senso, equivale a un’insurrezione. Il divario finanziario tra i due è stato in parte colmato da milioni in piccole donazioni – una media di 27 dollari ciascuna – che Sanders ha raccolto dai sostenitori. Una massa di giovani, giovanissimi, si è riversata per aiutare la sua campagna. Soprattutto, Sanders è riuscito nella cosa più importante: ha preso il controllo del messaggio politico, costringendo la Clinton ha spostarsi sul suo terreno, a dichiararsi “progressista”, a dire che lei e il senatore “sono d’accordo sugli obiettivi, ma divergono soltanto su come arrivarci”. Le dimensioni dell’“insurrezione” portata da Sanders in campo democratico sono visibili nelle migliaia di fan che hanno affollato i suoi comizi,. E nei numeri del suo recupero: in Iowa, a inizi campagna, lo dividevano circa 40 punti dalla Clinton. Nel giorno del voto i due si sono trovati praticamente alla pari.
Lo slancio preso dalla campagna di Sanders non deve illudere. La sfida resta per molti versi improba. Sanders non è Barack Obama, che nel 2008 riuscì a sfilare alla Clinton una candidatura che sembrava sicura. Obama era un democratico centrista, del tutto interno all’apparato del partito – che l’aveva scelto per dare il keynote address alla Convention democratica del 2004. A un certo punto, su di lui, si raccolsero i big democratici, i grandi finanziatori, il mondo dell’industria, spezzoni dei servizi e dell’esercito. Obama dava garanzie di essere il presidente riformatore, ma comunque tutto interno all’establishment, che poi è stato. In più, l’afflato di uomo nuovo raccoglieva attorno alla sua candidatura masse di popolazione in cerca di sogni e profeti.
Sanders non potrebbe essere più lontano da Obama. Non vende sogni, ma raccoglie l’insoddisfazione e la voglia di riforme più spedite. Non è così controllabile economicamente; anzi, alla lunga la sua retorica anti-Wall Street – nella più pura tradizione del populismo americano – può creare più di un problema all’establishment finanziario ed economico. Sinora poi i media l’hanno sostanzialmente snobbato. Nel 2015, ABC News ha dedicato 261 minuti di copertura alle presidenziali 2016. Donald Trump ha ottenuto 81 minuti; Sanders 20 secondi. Lo staff dei commentatori democratici di CNN è poi così composto: Paul Bengala e David Gergen, consiglieri in vario modo della Clinton; Donna Brazile, ex-chair del partito democratico; David Axelrod e Van Jones, uomini di Obama. E la “progressista” MSNBC continua a insistere nei suoi show sulla presunta “ineleggibilità” di Sanders alle elezioni generali. Una buona storia è comunque una buona storia e TV e media, sull’onda dell’entusiasmo e del seguito di cui Sanders gode, potrebbero cambiar strada e raccontare queste primarie in modo meno schierato.
Si tratta, per ora, soltanto di ipotesi. La grande favorita resta lei, Hillary Clinton: per legami politici, visibilità, forza economica. Ma Bernie Sanders non è più un fenomeno minoritario, ai limiti del folklore politico; e non è nemmeno Howard Dean, che alle primarie 2004 mise in piedi un movimento di giovani e una campagna di finanziamenti in Rete che ricorda quella di Sanders. Il “socialista del Vermont” oggi è a capo di un movimento politico che ha già segnato con i propri ideali, richieste, spirito, queste primarie democratiche.
Le prossime settimane, a partire da oggi, dal New Hampshire, diranno se il movimento è destinato a restare fonte di ideali, motore di passioni, o diventare qualcosa di più.