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Bergamo “capitale della cultura”, abbiamo un problema

mostra "se quei muri potessero parlare..." di bergamo

A Bergamo alta anche in un lunedì mattina, con i negozi pressoché chiusi in città bassa, gira qualche turista, spagnolo o francese, mentre fervono i lavori per smontare installazioni e piazze della festa delle luci (sponsor A2A) che ha animato per una settimana strade e piazze medievali con 340mila visitatori. Un successo già oltre le aspettative dice Nadia Ghisalberti, assessore alla Cultura del Comune di Bergamo: «La Capitale della Cultura ci lascerà un senso di appartenenza, il riconoscersi nel proprio patrimonio, nella propria storia». Sarà sicuramente vero ma c’è una storia che vorremmo sottoporre all’assessora, anche se la conosce bene.

Nella città vecchia c’è un ex-convento dal ’600 dei frati dai Padri Teatini, intitolato a Sant’Agata, convertito in carcere in epoca napoleonica, ristrutturato e rimasto carcere di città fino alla fine degli anni ’70. Durante la guerra fu un centro nevralgico della repressione nazifacista non solo per la provincia ma anche per Sondrio e Como. Chiuso il carcere per volere di Adriana Locatelli, eroina della Resistenza, che in quel carcere ha passato molti mesi, l’edificio rimarrà abbandonato e poi in qualche modo sezionato: la Cooperativa Città Alta ne ristrutturerà una parte col circolino, ristorante, sale ricreative. Nel 2015 l’ultima parte esistente del carcere viene affidato al centro di promozione culturale (sociale) Maite che nel vicolo di Sant’Agata si era trasferito da due anni. Il Comune lo definisce “bene comune” e Maite lo anima di attività e cultura.

Dal 2021 nell’unico corridoio originale rimasto con le celle, le sbarre, le scritte scrostate sui muri dei detenuti, c’è una mostra intitolata “Se quei muri…” nata dall’impegno di ricostruzione storica dell’Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea di Bergamo di provare a far ritornare le voci e anche gli oggetti di chi in questo luogo è stato richiuso: dall’archivio dell’Isrec e da tanti altri istituti arrivano lettere, fotografie, documenti e storie, dall’archivio del carcere di via Monte Gleno arrivano le divise, le scarpe e altri oggetti di uso comune come letti, sgabelli, arredi (ce ne sono tantissimi originali e forse meriterebbero un’attenzione specifica di conservazione). Sei celle, con le porte di ferro aperte, sei storie di uomini e donne lì rinchiusi, gli oggetti della vita persa e ristretta, le loro frasi stampate su tende che svolazzano davanti alle sbarre. In una stanza i luoghi di residenza di alcuni prigionieri bergamaschi vengono tracciati con un filo di cotone su una mappa per vedere quante vite e quanta prossimità tra di loro si siano concentrate in questo luogo durante la repressione. Un luogo di memoria, forte e magico, dove ci si immerge nella storia. Impossibile rimanere indifferenti.

Per due anni questo luogo è stato meta di scolaresche (da più di 50 scuole), di preparazione ai viaggi per i campi di sterminio (“non pensavamo che questa storia cominciasse qua, accanto a noi”, il commento più volte ascoltato), di percorsi, visite turistiche. Con un taccuino/catalogo della mostra preparato dalle curatrici (Elisabetta Ruffini, Chiara Molinero e Luciana Bramati), una app che ti fa approfondire il luogo, le storie, i documenti. Migliaia di persone hanno vissuto questa esperienza. Costo per l’amministrazione comunale 7mila euro di sostegno all’avvio del progetto. Il resto ce lo hanno messo: una erede di uno dei prigionieri passato da queste stanze terribili (Giulio Fiocchi), Isrec, Maite, fondazioni del territorio. Per tenerlo aperto è stata predisposta una borsa di lavoro per un detenuto in permesso. E comunque nessuno è volontario qui, sono tutti a contratto, perché il progetto marcia sulle sue gambe.

In questi giorni però chiude l’esperienza perché tutto il palazzo di vicolo Sant’Agata è oggetto di un bando da 8 milioni di euro per il Piano innovativo nazionale per la qualità dell’abitare (Pinqua), vinto dal Comune nel 2021 e poi confluito nei fondi del Pnrr. Cosa ci faranno? 12-15 appartamenti per giovani coppie per ripopolare il centro storico. Con tutto il rispetto, non proprio un obiettivo di quelli irrinunciabili e nemmeno inconciliabili con la sopravvivenza di un corridoio. «Il Comune ha espresso l’intenzione di mantenere un richiamo alla memoria del luogo nel progetto residenziale, ma — ha spiegato la direttrice dell’Isrec Elisabetta Ruffini — a oggi non pare esserci una chiara definizione su come e se il corridoio sarà salvato. E Quanto la memoria del carcere sia considerata nei progetti di rinnovamento di Città Alta un volano di cultura, partecipazione e turismo.». Ovviamente Isrec parla perché non ha avuto risposte ufficiali e nel limbo del “dovete chiudere a fine febbraio 2022” pone una domanda pubblica con un appello firmato da tutti gli istituti della resistenza lombardi e anche da quello nazionale intitolato a Ferruccio Parri, insieme a Anpi, Aned, associazioni locali, i docenti delle 50 scuole che quel percorso lo hanno vissuto e centinaia di cittadini della bergamasca. Cosa vuole dire il Comune quando dichiara che rimarrà la memoria: una targa o rimangono le celle? Per ora la risposta è stata un bello sbrego di due metri realizzato dai muratori per saggiare la durezza dei muri, il che non fa certo ben presagire.

Ma possibile che proprio quest’anno il Comune che si promuove capitale della cultura si priva di un bene comune storico (così lo ha definito l’amministrazione stessa) rivitalizzato e partecipato da processi dal basso e che in più si auto-mantiene per fare degli appartamenti? Non è cultura? Certo la mostra può essere prorogata qualche mese, fino all’inizio del cantiere (ultime indiscrezioni), ma Bergamo città alta, invasa da baretti e bed&breakfast reagisce alla gentrificazione cancellando luoghi storici pubblici per costruirci degli appartamenti?

L’intervista a a Angelo Bendotti presidente di Isrec – Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Bergamo

  • Autore articolo
    Claudio Jampaglia
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    Il femminicida non è un malato, ma un figlio sano del patriarcato, cresciuto in una cultura che considera la donna un essere inferiore. Da proteggere, sminuire, controllare, e nei casi più estremi, da picchiare o uccidere. In Italia, ogni tre giorni una donna viene uccisa, spesso per mano di chi dovrebbe amarla. E oltre agli omicidi, un sommerso di violenze – dal catcalling alla violenza psicologica – pesa sulle donne, mentre la società si interroga troppo poco sulle sue responsabilità. Da questa riflessione nasce il progetto ideato dal Teatro Carcano, scritto da otto autori uomini e interpretato da Alessio Boni e Omar Pedrini, un viaggio nella mente del carnefice per analizzare il retaggio culturale che alimenta la violenza di genere. Inaugurato il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, lo spettacolo è un atto di autocoscienza collettiva che punta a smantellare le radici patriarcali della nostra cultura. Ospite a Cult, Alessio Boni ne ha parlato con Ira Rubini.

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