L’attentato di questa mattina a Manbij, nel nord della Siria, ha fatto 15 morti e altrettanti feriti. Si tratta dell’attacco con il maggior numero di vittime dalla caduta di Bashar al-Assad, lo scorso dicembre. Oltretutto è stato in un luogo, il nord del paese, dove gli scontri tra gruppi armati non sono mai finiti, nonostante il cambio di governo a Damasco.
La zona è quella dove per anni si sono fatti la guerra i gruppi curdi e le milizie arabe supportate dalla Turchia. Succede ancora oggi. Manbij è una delle località conquistate dai curdi nella campagna contro l’ISIS, ormai diversi anni fa. La maggior parte della popolazione è araba e non curda. Le milizie arabe l’hanno ripresa poche settimane fa, dopo la caduta del vecchio regime.
Gli scontri del nord sono tra i problemi principali che dovranno risolvere i nuovi padroni della Siria, per fare in modo che il paese possa sul serio voltare pagina.
Quasi tutte le vittime dell’attacco di questa mattina erano donne.
Sempre a Manbij era scoppiata un’altra autobomba sabato scorso.
Oggi i curdi hanno negato ogni responsabilità, accusando i gruppi armati arabi di voler diffondere il terrore tra la popolazione locale. Non ci sono state rivendicazioni.
La posizione della comunità curda e la sua futura possibile intergrazione nel processo di transizione costituiranno un elemento chiave, dal quale come dicevamo dipenderà il successo o meno della costruzione della nuova Siria.
Le nuove autorità hanno chiesto ai curdi, come a tutte le altre minoranze, di entrare a far parte della nuova struttura civile e militare. I curdi non hanno ancora risposto.
La questione sarà sicuramente tra i temi in discussione, domani ad Ankara, durante la visita del presidente siriano ad interim Ahmed al-Shara a Erdogan.
Sono anni che la Turchia colpisce le postazioni delle milizie curde nel nord-est della Siria. Ankara le considera la stessa cosa del PKK – il gruppo armato che da 40 anni combatte lo stato turco – quindi organizzazioni terroristiche.
Dal suo arrivo a Damasco Ahmed al-Shara, ex-leader di Hayat Tahrir al-Sham, ha promesso più volte che la nuova Siria sarà inclusiva e che ci sarà spazio per tutti. Il coinvolgimento o meno della comunità curda sarà quindi un test importantissimo per verificare la sua credibilità, soprattutto agli occhi dell’Occidente.
Da capire dove cadrà il punto di equilibrio, se ci sarà.
L’incontro di domani ad Ankara è significativo anche dal punto di vista simbolico. È il secondo viaggio all’estero di al-Sharaa, dopo quello in Arabia Saudita, ed è nel paese che sostanzialmente ha reso possibile la sua ascesa politica. La copertura della Turchia ai ribelli che hanno fatto cadere Assad è stata determinante. Possiamo tranquillamente dire che Erdogan sia il principale attore esterno nella Siria di oggi. Durante la riunione si parlerà di economia e sicurezza. Anche del supporto di Ankara alle nuove forze armate siriane, nelle quali dovrebbero confluire i tanti gruppi ribelli che hanno fatto la guerra ad Assad. L’esercizio è complicatissimo.
La caduta del vecchio regime siriano ha anche rovesciato i rapporti di forza tra la Turchia e i due vecchi alleati di Assad, Russia e Iran. Ora sono questi ultimi a dover passare da Ankara per arrivare al governo siriano. Prima era il contrario.
Il cambio di regime a Damasco è sicuramente una vittoria per Erdogan. Ma ora il presidente turco dovrà evitare di alimentare le divisioni in Siria. Il rischio è che la transizione non abbia successo, con conseguenze negative anche per il suo paese.