L’idea della guerra pervade il lessico di media e leader politici in queste ore, dopo gli attentati di Bruxelles, le 31 vittime e le decine di feriti. “La guerra all’Europa“, hanno titolato diversi quotidiani questa mattina, riferendosi a quella dei terroristi che agiscono sotto le insegne di Daesh. “La guerra al terrorismo” è stata l’espressione utilizzata dal presidente francese Hollande. Il capo dell’Eliseo – dopo le bombe omicide e suicide di ieri – ha chiesto “una risposta mondiale ad una minaccia mondiale”.
Memos ne ha parlato oggi con il politologo Yves Mény, presidente della Scuola Sant’Anna di Pisa, e il sociologo Fabrizio Battistelli, presidente dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo. Come si combatte il terrore di Daesh senza ricorrere alla guerra? Per il politologo francese la risposta è netta: bisogna affrontare alla radice il senso di frustrazione e il desiderio di vendetta. Entrambi, secondo Mény, originano dalla spartizione del Medioriente decisa dalle potenze anglo-francesi verso la fine della prima guerra mondiale. Il sociologo Battistelli, invece, punta più che sulla politica sulla capacità dell’Europa di trovare una soluzione alla crisi dei modelli sociali di integrazione.
La trasmissione di oggi è iniziata con una citazione di quanto un giornalista esperto come Alberto Negri, inviato speciale del Sole-24Ore, ha raccontato ieri sera a Radio Popolare. Un resoconto noto nei contenuti, ma efficace anche per la sintesi con cui è stato esposto. Negri ha parlato dell’orgine dell’identità di Daesh e dei fallimenti storici dell’Occidente, in testa degli Stati Uniti, nella relazione con l’integralismo politico sunnita. Si parte dall’Afghanistan dell’inizio degli anni Ottanta, il sostegno ai mujaheddin in chiave anti-sovietica. Si passa poi attraverso al Qaeda e si arriva fino alla Siria di questi ultimi anni e al sedicente Califfato sostenuto dagli alleati occidentali nell’area (Turchia, Arabia Saudita) in chiave anti-Assad. «Oggi – racconta Negri – i jihadisti dell’Isis con le bombe in Europa e in Turchia hanno deciso di vendicarsi dell’Occidente e di Erdogan. Gli Stati Uniti fino a ieri hanno chiesto l’uscita di scena di Assad, due anni fa volevano addirittura bombardarlo. Ma tutto ciò non è avvenuto». Da qui, secondo Negri, nascerebbe la vendetta di Daesh contro l’Occidente, una reazione al tradimento di una causa comune come la cacciata di Assad dalla Siria. Ancora una volta, come nel caso di Bin Laden, il nemico dell’Occidente ha compiuto tratti di strada comuni allo stesso Occidente.
Come si combatte, allora, il terrorismo di Daesh? Per il professor Mény le bombe non servono, a maggior ragione se non si risolvono problemi di lungo termine in Medioriente. «Ha ragione Negri – sostiene Mény – nel ricordarci che la storia è lunga e che la memoria degli esseri umani è sempre alimentata anche da interpretazioni recenti. Io andrei forse ancora più in là di Negri. Tutta questa parte del mondo (il Medioriente, ndr) è frustrata, divisa dagli accordi anglo-francesi del dopo prima guerra mondiale. Sono accordi in cui si sono ritagliati i confini di Iraq, Libano, Siria e della Turchia post-ottomana. Dappertutto in quell’area ci sono delle minoranze che rivendicano – seguendo il modello europeo dell’autodeterminazione – autonomia e indipendenza. Questa memoria lunga vale ancora. È una memoria frustrata, ma ancora viva. Lo dico non per trovare scuse al terrorismo, che non ne ha alcuna, ma per spiegare che in queste parti del mondo c’è un accumulo di frustrazione, di povertà, di desiderio di vendetta che si alimenta facilmente in questa storia rimasticata e reinterpretata nel modo peggiore possibile. Per rispondere alla sua domanda – conclude il politologo francese – ricordo che per la lotta al terrorismo ci sono delle soluzioni a breve, ma ci devono essere anche soluzioni a lungo termine. Se non portiamo delle soluzioni a questi problemi di lungo termine, ovviamente le bombe non basteranno per eliminare il terrorismo internazionale».
Per il professor Fabrizio Battistelli la questione è socilae più che politica. «La mia posizione – dice Battistelli – è di metodo, non di contenuti. Diversa da quella di Negri, a cui riconosco comunque di essere un bravissimo giornalista. Non condivido un’impostazione che sia soltanto politica, cioè che riconduca tutto ad una serie di eventi legati a personalità e a decisioni assunte nel corso della storia. Condivido l’idea di fondo che l’Occidente abbia delle responsabilità molto gravi sull’attuale fase di crisi. Responsabilità che risalgono ad eventi recenti, ma anche di oltre un secolo fa. Parlo degli imperi coloniali, del dominio del Mediterraneo con “le vele e i cannoni”, come diceva anni fa lo storico italiano Carlo Cipolla. Tutto ciò è verissimo, però occorrerebbe mettere insieme gli eventi con un’interpretazione di “lunga durata”. Cosa dobbiamo fare oggi per evitare lo scontro di civiltà, per evitare il terrorismo? Dobbiamo spostarci – sostiene Battistelli – dal politico al sociale, lavorando sulle strutture della società. Mi riferisco al fatto che noi abbiamo delle differenze tra le due rive del Mediterraneo che sono di natura sociale, antropologica e culturale. Dobbiamo partire dalla constatazione che esistono delle differenze e dalla ammissione che si tratta di differenze legittime. La grande domanda è: riusciamo a trovare un punto di incontro fra queste differenze? Per arrivare a ciò dobbiamo fare un bilancio dei diversi modelli di relazione che noi abbiamo intrattenuto con questi popoli, sia a livello politico che a livello sociale».
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