«Negli anni Settanta, in uno dei periodi più difficili e malsani della mia vita, capii cosa dovevo fare: sperimentare e scoprire nuove forme di scrittura musicale, dando vita a nuovi linguaggi. E decisi che ci sarei riuscito»
(David Bowie)
David Bowie è morto nella notte tra il 10 e l’11 gennaio. A poche ore di distanza dall’arrivo sul mercato dell’album Blackstar. Un buco nero travestito da tumore, implacabile e spietato, lo ha risucchiato. E sia la soffitta popolata da fantasmi che i campi tenebrosi presidiati da spaventa-passeri, tutte immagini che costituiscono il cuore sensibile del lungo videoclip del brano “Blackstar”, sono il presagio della fine. O, se preferite, del nuovo inizio: sappiamo bene che la dipartita di Bowie è un passaggio spazio-temporale. È un punto di non-ritorno attraverso la porta che conduce in universi a cui noi, per ora, non possiamo accedere. Bowie è sempre stato un passo avanti rispetto agli altri e adesso è proiettato verso la prossima next big thing.
Buon viaggio mr David B. E a noi terrestri cosa rimane?
La sua musica e tutto ciò che stava intorno a essa: storie, racconti, personaggi, fatti, idee, immagini e immaginazioni. «Ma la musica resta» scrisse il poeta T. S. Eliot: niente di più vero. Resta, continua a vivere e, quando lo desidereremo, saprà accompagnarci nel viaggio di ogni giorno, rimanendo la stessa e al contempo cambiando con noi. Un antico detto orientale recita: «La vita è cambiamento» e, nel caso di Bowie, è un elemento di continuità tematica imprescindibile.
Il costante bisogno di evolvere e di spingere la propria ricerca artistica anche verso l’ignoto, talvolta in ambiti oscuri e pericolosi, ha contraddistinto questo artista che nell’agosto del 1965 si affacciò su una scena musicale dominata da Beatles, Rolling Stones e Kinks, cercando di aprirsi un varco con You’ve Got a Habit of Leaving, un brano dalla vaga fragranza psichedelica, scritto e cantato da Davy Jones (il primo personaggio interpretato da Bowie, che all’epoca usava ancora il vero cognome), accompagnato dagli oscuri Lower Third.
Sul finire degli anni Sessanta, dopo tentativi poco fortunati, David Bowie individuò una direzione consistente: guardò tra le stelle e portò la sua sensibilità di songwriter verso le solitudini cosmiche, adottando canoni estetici che giocavano sull’androginia più teatrale. Agli albori degli anni Settanta ampliò il proprio panorama stilistico, includendo la musica da cabaret, i riferimenti colti (a Nietzsche, per esempio), agli artisti che avevano portato la grande arte alla gente, come Andy Warhol, e a quelli che avevano accresciuto la consapevolezza collettiva, come Bob Dylan.
In un’epoca in cui la musica era una forza trainante e un invito a trovare motivazioni, David Bowie capì che era necessario incarnare un personaggio sul palco e nella vita: nacque l’algido ma sensuale Ziggy Stardust e, dopo di lui, arrivarono l’instabile Halloween Jack, l’imperscrutabile Actor e, infine, il dolente e crudele Thin White Duke, re dei contrasti e del bianco/nero, equilibrista in bilico sulla linea d’ombra che unisce luce e tenebre.
Nel 1976, esattamente quaranta anni fa, David Bowie camminava davvero sull’orlo del baratro. Viveva come un recluso a Los Angeles, sconvolto dall’abuso di droghe, tormentato da ossessioni paranoico-distruttive, dedito a una dieta suicida: peperoni, latte, quattro pacchetti di Gitanes al giorno e montagne di cocaina. Come riuscì a emergere dal girone infernale in cui stava soccombendo? Tornando agli amori di gioventù e alla fascinazione per l’arte espressionista tedesca degli anni Venti e Trenta. Preso sotto braccio l’amico James Osterberg (in arte Iggy Pop, all’epoca eroinomane) migrò nella vecchia Europa e, nella Berlino plumbea del 1976/77, trovò ciò che stava cercando: una via d’uscita per rigenerarsi come uomo e come artista.
In quel periodo di grandi transizioni artistiche, sociali e politiche David Bowie, con il contributo del grande produttore Tony Visconti, del poliedrico Brian Eno e del chitarrista Carlos Alomar, diede vita a un trittico di capolavori che influenzarono e continuano a influenzare un esercito di musicisti, compositori, performer: Low, Heroes, Lodger. Se questo nostro Belpaese avesse un sistema scolastico dinamico i tre album appena citati li ascolteremmo con gli studenti nelle scuole superiori. Chissà, forse un giorno succederà o lo faremo succedere.
Nel frattempo: la musica di Bowie. Gli anni Ottanta del Novecento sono il periodo meno interessante per l’artista (fatta eccezione per il capolavoro Scary Monsters), negli anni Novanta, con 1. Outside, la cose tornano a farsi interessanti. L’ultimo lavoro, il citato e magnifico Blackstar uscito l’8 gennaio in concomitanza con il 69esimo compleanno di David Bowie, chiude la carriera per quanto concerne brani e dischi inediti.
Bowie è partito per il primo tour ultraterreno: a noi che rimaniamo con i piedi per terra e con i cuori in tumulto resta la sua musica, per sempre.