Un risultato storico, anche se non è la prima volta che il peronismo viene battuto da quando è nato nel 1946.
I militanti kirchneristi avevano subìto più che scelto Daniel Scioli, lo sconfitto ex-governatore della Provincia di Buenos Aires, già vicepresidente di Nestor Kirchner.
Scioli, con origini politiche nel menemismo degli anni ’90, era considerato troppo moderato e lontano dall’ortodossia rappresentata da Cristina Kirchner. Ora che dopo 12 anni andrà all’opposizione, questa corrente progressista del peronismo in fondo non è neanche troppo preoccupata: faranno opposizione dura, di strada e nel Parlamento dove avranno una forza di tutto rispetto, e tra 4 anni sicuramente punteranno di nuovo su Cristina Kirchner, che potrebbe ancora essere eletta avendo saltato un turno.
Sono tutte speculazioni belle e buone però, perché nel frattempo il vincitore Mauricio Macri, un ricchissimo ingegnere calabro-argentino già sindaco di Buenos Aires, avrà tutto il tempo per consolidarsi al potere.
Per la prima volta in molti anni, un presidente controllerà simultaneamente la città di Buenos Aires, la sua provincia e il Paese, cosa mai riuscita nemmeno a Cristina Kirchner.
I principali problemi per Macri arriveranno dal rapporto con i governatori-cacichi delle provincie peroniste e con la vastissima platea di impiegati pubblici gonfiata a dismisura in questi ultimi mesi di ritirata del potere kirchnerista, ai quali sarà difficile garantire il posto di lavoro.
Molto dipenderà anche, in termini di pace sociale, da un altro fatto: se Macri sceglierà, come dichiarato, di mantenere le misure di sostegno agli indigenti, alle mamme e ai disoccupati.
In termini economici, le prove che lo aspettano sono molto dure: anzitutto negoziare la fine delle ostilità con i “fondi avvoltoi”, che possiedono ancora quote del debito argentino, pagando qualche miliardo di dollari per fare uscire il Paese dal default tecnico e farlo rientrare nel mercato dei capitali.
Altro fronte caldo dell’economia sarà il ritorno alla normalità del mercato dei cambi, che in questi anni di rigidi controlli ha generato un mercato parallelo nel quale il dollaro costa un 60% in più di quello ufficiale.
Altra sfida infine sarà quella della lotta all’inflazione, che secondo i numeri truccati dell’Istituto di Statistica si aggira attorno al 12%, mentre in realtà galoppa a un ritmo del 25-30% annuo.
Sono tante e complesse le questioni sul tavolo del neo-presidente, il primo uomo con un profilo di centrodestra ad essere stato eletto democraticamente in Argentina.
Macri è però anzitutto un pragmatico, come dimostrato nella gestione della città di Buenos Aires, e non si fa problemi a proporre politiche appartenenti ad altre tradizioni rispetto alla sua, se le ritiene giuste.
Saranno però i suoi sostenitori forse a fare la differenza, e da questo punto di vista il governo potrebbe imbarcare come ministri ex-CEO di alcuni gruppi discutibili e discussi, come Monsanto, Shell o J P Morgan.
Non è un mistero per nessuno che i “poteri forti” avevano scommesso sulla sua candidatura e ora sono pronti a incassare la cambiale.
La posizione di Macri sarà per forza di cose più da equilibrista che da politico, dovendo mediare ogni giorno tra gli interessi “popolari”, che sosterrà a spada tratta l’opposizione, e quelli dei “grandi” dell’economia che hanno fatto il bello e il cattivo tempo nell’Argentina degli ultimi decenni.
Il 10 dicembre avverrà un passaggio di consegne inedito in Argentina, ma che conferma un dato: l’ineluttabilità della democrazia e la certezza per chi raccoglie più consensi di potere governare.
Il peronismo che era al potere dal 2003 forse aveva bisogno di una pausa di riflessione, soprattutto dopo i madornali errori in materia economica degli ultimi due anni, e da questo punto di vista il risultato delle elezioni può essere considerato salutare, ma il “macrismo” dovrà dimostrare di essere in grado di governare un paese e non più una città.
Soprattutto dovrà aggiornare le sue convinzioni “ideologiche” per evitare strappi e ritorni a un passato, quello della versione stracciona del neoliberismo menemista, dal quale l’Argentina è uscita solo parzialmente e con grandi sforzi.