Ryan Murphy è un nome che, da questa parte dell’oceano, non suonerà familiare a molti, ma negli Stati Uniti è diventato, in oltre un decennio, tra le figure più rilevanti della serialità tv. Un vero e proprio autore, con uno stile inconfondibile e ossessioni ricorrenti, straordinariamente prolifico, e politico.
American Horror Story è forse la sua creatura più famosa, anticipatrice di una tendenza oggi sempre più diffusa, cioè quella della serie antologica: a ogni stagione si ricomincia da zero, raccontando una nuova storia, e spesso gli stessi attori tornano a interpretare nuovi personaggi. Le sue storie d’orrore americano riuniscono sì figure, luoghi e stereotipi del cinema horror – dalle suore possedute alle congreghe di streghe, dalle case infestate di fantasmi ai vampiri – ma sempre per rimarcare che il vero raccapriccio scorre, reale e tangibile, nella discriminazione quotidiana, nel razzismo, nella repressione sessuale, nella violenza verso il diverso: “Tutti i mostri sono umani”, si ripete spesso nella serie.
E la settima stagione, sottotitolata Cult (“setta”) e in onda dal 6 ottobre su Fox Italia, è in questo senso più esplicita che mai: comincia in una notte di puro terrore, quella delle elezioni presidenziali 2016, con la vittoria di Donald Trump. Protagonisti, da una parte, una coppia lesbica atterrita dal trionfo dell’estrema destra, dall’altra un misterioso e felicissimo esponente dell’Alt Right.
L’elemento horror è garantito dall’imperversare di un gruppo di clown assassini (il lato oscuro di un “presidente pagliaccio”, forse?), ispirato a Murphy dai tanti avvistamenti di clown avvenuti negli Stati Uniti proprio prima delle elezioni. Il cuore di questa stagione – contraddistinta come le altre da un particolare gusto per l’eccesso e da una costante ironia – sembra essere l’esplorazione della paura: come si crea e come si manipola, fin dove può spingerci, in quale orrore quotidiano ci può precipitare.