La voce di Alice Munro è come sempre inimitabile: impietosa, raffinata nella costruzione sintattica, crudele nel rappresentare nella cornice perlopiù di piccole città, i risvolti dei rapporti familiari, sessuali, amicali, capace di rendere l’orgoglio femminile, ma anche la vita piegata dal caso oppure da disgrazie sia accidentali sia richiamate in qualche modo dagli stessi personaggi.
Del racconto Oh, a che giova – contenuto nella raccolta pubblicata da Einaudi, Amica della mia giovinezza – cito un passaggio che suona quasi come una dichiarazione di poetica. Qui la protagonista si sta riferendo al fratello, il quale ha al contrario di lei l’attitudine ad arricchirsi. “L’aspetto interessante ai suoi occhi non sarebbero i soldi. Le manca proprio l’istinto in quel campo. A lei interesse scoprire il perché. Ci rimuginerebbe all’infinito traendone una certa soddisfazione. Quel dettaglio sul conto di suo fratello andrebbe a depositarsi nella sua mente come un cristallo di rocca, un oggetto minuscolo e strano, luminescente, la scheggia di un tesoro esotico.”
Ecco, le sue pagine sono fatte di tanti di questi cristalli di rocca: la breve descrizione di un luogo o di un oggetto essenziale e centrata, la piega inaspettata di una relazione, un moto d’affetto che si tramuta di colpo in odio, in rancore, delusione, senso di colpa, voglia di rivalsa.
Tutto è essenziale nella scrittura della Munro e anche l’intera costruzione del testo è rimuginata e perfetta come quei singoli momenti che la compongono. Questo fa sì che sul movimento largo e chiaro della trama, che si intravede al fondo, veniamo colpiti da tanti tocchi imprevisti e rivelatori: che si tratti di colpi di scena, piccoli e grandi, dell’arguzia di un motto, della scelta di una coppia o un tris di aggettivi.
Un capolavoro di abilità quello di Alice Munro, e il lettore che riesce a percepirla ne viene afferrato per sempre, tanto da non riuscir più a rinunciare ad ogni sua raccolta, e da augurarsi l’impossibile: che l’autrice quasi ottantacinquenne possa miracolosamente darci ancora nuovi racconti.
Amica della mia giovinezza è quello che apre la raccolta; e pure l’ultimo che la chiude, Parrucca, è dedicato all’amicizia tra due donne. Dato che l’opera della Munro è fatta di una miriade di sassolini autobiografici – tanto che al paese natale, Wingham, nell’Ontario, gliel’avevano giurata, trasformando poi il risentimento, per ciò che ne aveva detto, in fierezza data la fama crescente della scrittrice che ha raggiunto l’apice con il premio Nobel – è facile cogliere nella maestra, che va a fare una supplenza in una scuola lontana da casa, il ritratto della madre della Munro. E’ lei la donna che abbiamo incontrato anche in molti altri suoi lavori e imparato a riconoscere.
[youtube id=”EgKC_SDhOKk”]
Tra la maestra e una coetanea del luogo viene stretta un’amicizia, che con toni alterni durerà fino alla fine della loro esistenza. Saranno delle lettere a far proseguire la storia, una volta che tra le due ci saranno miglia e miglia di distanza. Flora, l’amica della madre, è una donna forte, generosa, che ama affrontare anche i lavori più pesanti della casa di campagna dove vive con la sorella più giovane e fragile. Sta per sposarsi, solo che all’ultimo salta fuori che il fidanzato ha messo incinta proprio la sorella.
Il matrimonio verrà celebrato, tra la riprovazione dei compaesani, e non sarà quello previsto. La fattoria dove abitano viene divisa in due: in una parte abita la coppia, nell’altra Flora.
Per una serie di gravidanze interrotte e la malattia che porterà alla morte la sorella, arriva un’infermiera a domicilio ad assistere la malata. Dopo il funerale la comunità si aspetta che, rimasto vedovo, l’ex-fidanzato possa mantenere la vecchia promessa fatta a Flora; ma le cose andranno di nuovo diversamente.
E alla fine al lettore non resta che un interrogativo su cui lambiccarsi e congetturare: possibile che una donna tollerante e generosa come Flora che alla fine perde tutto – due volte l’uomo che le era stato destinato, e alla fine perfino la casa – non sia in verità né perdente né autolesionista? E che il bilancio di quella vita, nonostante i pareri di tutti coloro che la conoscono, risulti soddisfacente e dignitoso più di quelli al solito considerati tali?
In un paio di racconti della raccolta abbiamo un altro dei momenti ricorrenti in Alice Munro: il rientro al paese dal quale la giovane protagonista è fuggita, per studiare o per per qualche altra ambizione, sempre inorridita dalla famiglia d’origine e dal clima asfittico che la circonda. Il rientro è a volte una disfatta come quando il matrimonio col giovane prelato è andato a monte per una mossa avventata della ragazza. O qualcosa di malinconico, come in Parrucca, quando il rientro è quello di una donna divorziata ma anche realizzata in una specie di seconda chance professionale che si è offerta, che rincontra l’amica del liceo, corpulenta, irriconoscibile, ormai nonna.
Come spesso nella Munro c’è un atto violento, o sordido, o quasi folle nella sua incongruità, a muovere l’intreccio. Sebbene le loro due vite siano ormai definite, torna a galla il passato e l’episodio che ha fatto sì che una delle due, la più avvenente e ambiziosa – che nelle proprie fantasie avrebbe voluto fare l’archeologa o la modella – pur di andarsene abbia ripiegato su un corso per diventare infermiera. Come succede alle adolescenti, entrambe si erano invaghite di un uomo maturo, sposato, conducente del pullman che dalla campagna le portava quotidianamente al liceo.
Il desiderio sessuale femminile, quello che di colpo può cambiare la tua esistenza, altra tematica ricorrente dell’autrice canadese, porta una delle ragazze a un matrimonio insensato ma che ha il suo cemento proprio nel sesso, e l’altra ad una partenza precipitosa quanto al momento lesiva. Eros che muoverà di nuovo le sue scelte inducendo l’infermiera a lasciare il marito.
Così come è successo alla Munro, che fa di questo passaggio uno dei fondamentali della propria esperienza, dandone una versione letteraria strepitosa, cartina di tornasole di un’intera epoca storica.
Alice Munro
Amica della mia giovinezza
Traduzione di Susanna Basso
Einaudi 310 pagine, 20 euro