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La bomba su Hiroshima: “L’ultimo grado di barbarie della civiltà”

Vi riproponiamo un pezzo pubblicato per la prima volta nel 2016, ma valido con tutta evidenza ogni anno, forse addirittura ogni giorno, perché i valori che emergono dalle parole di Alberto Camus vanno ben al di là della “anti-celebrazione” del 6 agosto 1945. 

In un primo tempo, la bomba di Hiroshima suscitò poca emozione. Era un nuovo orrore, che si aggiungeva agli innumerevoli orrori della Seconda guerra mondiale. Sui principali giornali, come per esempio Le Monde, molti editorialisti ne avevano visto una prodezza scientifica e tecnica.

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Lo scrittore e intellettuale Albert Camus era ben solo quando, l’8 agosto 1945, in un editoriale sul giornale della resistenza francese Combat, lanciò il suo grido d’allarme.

Il mondo è quello che è, cioè poca cosa. È quello che, da ieri, ciascuno sa grazie al formidabile concerto che la radio, i giornali e le agenzie di stampa hanno appena finito di organizzare a proposito della bomba atomica. I fatti, soverchiati da una folla di commenti entusiasti, ci insegnano che qualsiasi città di media importanza può essere totalmente rasa al suolo da una bomba della grandezza di un pallone da football. Giornali americani, inglesi e francesi si dilungano in eleganti dissertazioni sul futuro, il passato, gli inventori, il costo, la vocazione pacifica e gli effetti bellici, le conseguenze politiche e anche il carattere indipendente della bomba atomica.

Noi riassumeremo il nostro pensiero in una sola frase: la civiltà meccanica è appena giunta al suo ultimo grado di barbarie. Dovremo scegliere, in un futuro più o meno prossimo, tra il suicidio collettivo e l’impiego intelligente delle conquiste scientifiche.

Nell’attesa, si può pensare che vi sia un certa indecenza a celebrare in questo modo una scoperta che si pone prima di tutto al servizio del più formidabile accanimento distruttivo di cui l’uomo abbia dato prova da secoli. Che in un mondo esposto a tutti gli strappi della violenza, incapace di alcun controllo, indifferente alla giustizia e alla semplice felicità umana, la scienza si consacri all’omicidio organizzato, nessuno ormai, a meno che non sia affetto da idealismo congenito, troverà modo di stupirsi.

Scoperte del genere dovrebbero essere registrate, commentate per quello che sono, annunciate al mondo affinché si abbia un’idea plausibile del proprio destino. Ma corredare queste terribili rivelazioni con una letteratura pittoresca o caricaturale è davvero intollerabile.

Già si respirava male in questo mondo tormentato. Ed ecco che ci viene proposta una nuova angoscia, che ha tutte le prerogative di essere definitiva. Sì, viene offerta all’umanità la sua ultima possibilità. Dopotutto, potrebbe fungere da pretesto per un’edizione speciale. Ma, più probabilmente, dovrebbe fungere da occasione per non poche riflessioni e molto silenzio.

Del resto, ci sono altre ragioni per accogliere con riserva il romanzo di fantascienza propostoci dai giornali. Quando si vede un redattore diplomatico dell’Agenzia Reuters annunciare che l’invenzione rende caduchi i trattati o prescritte le stesse decisioni di Potsdam e sottolineare come sia ormai indifferente che i russi trovino a Königsberg o la Turchia sui Dardanelli, non ci si può trattenere dall’attribuire a questo bel concerto intenzioni estranee al disinteresse scientifico.

Intendiamoci bene. Se i giapponesi capitolano dopo la distruzione di Hiroshima  e sotto il suo effetto intimidatorio, noi ne siamo felici. Ma non intendiamo far discendere da una notizia tanto grave altra decisione se non quella di perorare con ancora maggior forza la causa di una vera organizzazione internazionale nella quale le grandi potenze non abbiano diritti superiori a quelli delle piccole e medie nazioni e nella quale la guerra, flagello divenuto mortale per il solo effetto dell’intelligenza umana, non dipenda più dagli appetiti o dalle dottrine politiche di questo o quello Stato.

Davanti alle prospettive terrificanti che si aprono all’umanità, ci accorgiamo ancora di più che la pace è la sola battaglia che meriti di essere combattuta. Non è più una supplica ma un ordine che deve salire dai popoli ai governi, l’ordine di decidere definitivamente tra l’inferno e la ragione”.

combat

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