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Addio a Norman Lear, la mente dietro a “All in the Family”

norman lear

Quando oggi diciamo “black mirror”, “specchio scuro”, evochiamo immediatamente uno dei tanti schermi che popolano la nostra quotidianità, e insieme vibrazioni distopiche e angoscianti. Eppure uno dei primi a pensare che la televisione dovesse essere anche uno specchio, oltre che un mezzo di intrattenimento, è stato un uomo e un autore profondamente ottimista: Norman Lear – il “re Lear”, come lo chiamano gli appassionati di televisione – è morto lo scorso 5 dicembre, a 101 anni, dopo una carriera da sceneggiatore e produttore durata oltre 70 anni. Per il pubblico italiano è un nome probabilmente poco noto, per gli statunitensi la sua figura pubblica – quasi sempre accompagnata dall’immancabile cappello – è celebre, perché oltre che al timone di numerosissime sitcom si è speso molto come attivista per la libertà di espressione.
A contarli, i titoli in cui è accreditato come sceneggiatore sono più di 100: veterano della Seconda guerra mondiale (aveva combattuto proprio in Italia), negli anni 50 si era trasferito a Los Angeles con l’idea di lavorare nelle pubbliche relazioni, come un suo zio, e invece si era ritrovato a scrivere apprezzatissime gag per Dean Martin e Jerry Lewis. Dopo gli anni da scrittore comico e dopo aver creato uno show western con Henry Fonda intitolato The Deputy, la serie che a inizio anni 70 fa esplodere la sua popolarità – e non solo – è una delle situation comedy più influenti della storia della tv americana: All in the Family, in Italia conosciuta come Arcibaldo, dal nome del suo protagonista Archie Bunker. È una sitcom familiare, girata in studio e con le risate del pubblico dal vivo, ma per la prima volta invece che pura evasione scollegata dall’attualità, al centro di dialoghi e sketch c’è la discussione, spesso anche molto accesa, di temi politici e sociali. Archie Bunker, il protagonista che Norman Lear aveva modellato pensando al proprio padre, è un tassista di mezza età, un uomo della classe operaia, però dalle idee bigotte e reazionarie: si scontra quotidianamente con la figlia Gloria, femminista, e con il futuro genero progressista Mike, mentre la moglie Edith cerca vanamente di mantenere il quieto vivere. All’inizio della messa in onda di All in the Family, i vertici della CBS erano preoccupatissimi che la serie potesse offendere il pubblico, e che gli spettatori avrebbero rifiutato un programma che parlava di temi complessi (oggi diremmo “divisivi”) come la guerra in Vietnam, la discriminazione femminile, il razzismo. Invece, All in the Family fu un enorme successo, lo show più visto d’America per molti anni, proprio perché così tanti statunitensi vi si riconoscevano, riflettendosi dentro lo specchio della tv.
Per tutti gli anni 70 e 80, le sitcom di Lear si sono moltiplicate, e l’autore si preoccupava ogni volta di mettere al centro del racconto tipologie di personaggi e argomenti che fino a quel momento non avevano spazio in tv: sono sue I Jefferson e Good Times, le prime ad avere come protagoniste famiglie afroamericane, nel primo caso benestanti, nel secondo working class, esattamente come in un altro show celebre anche da noi, Sanford and Son. In Giorno per giorno – di cui è stato fatto un sequel/remake negli scorsi anni su Netflix, sempre con Lear al timone – si parla di divorzio, in Maude e in Mary Hartman, Mary Hartman di istanze femministe. Contemporaneamente, l’autore portò avanti la sua attività politica, sostenendo i candidati democratici e fondando l’organizzazione People for the American Way, impegnata a contrastare le iniziative di censura della destra ultra-cristiana: Lear, di religione ebraica (anche se i suoi oppositori lo accusavano sistematicamente di essere un “senza fede”) era uno strenuo difensore della divisione tra stato e chiesa e della necessità di tenere le inferenze religiose fuori dalla politica. Negli ultimi anni, il personaggio di Archie Bunker è tornato protagonista nel discorso pubblico americano, perché in molti l’hanno associato a Donald Trump: un tizio che dice cose improponibili, ma che alla gente sta simpatico. Ed è vero che All in the Family è stata, per moltissimi aspetti, una serie in anticipo sui tempi, che ha visto prima degli altri qualcosa di specifico nel DNA a stelle e strisce: la triste differenza è che la speranza di un dialogo tra progressisti e conservatori, oggi, si è decisamente affievolita.

  • Autore articolo
    Alice Cucchetti
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    La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono stati i buoni pasto: “Abbiamo chiesto 1,50 euro in più, non la luna, ma l’azienda ci ha detto di volerli spalmare sui prossimi tre anni”. Il caro-vita però non aspetta e insieme ad altre questioni come il premio di risultato insufficiente, i ritmi di lavoro e il clima interno hanno portato a uno stallo nelle trattative per il rinnovo del contratto e a questa giornata di sciopero nazionale. Secondo i delegati in piazza l’adesione è stata dell’80% negli store più grandi e del 70% in quelli più piccoli. Il gruppo Feltrinelli ha ribadito la sua posizione: “Siamo aperti a proseguire la negoziazione con l’obiettivo di giungere a una soluzione condivisa e sostenibile sulle questioni ancora aperte”. Oggi ci sono stati una decina di presidi in altrettante città italiane convocati da Cgil, Cisl e Uil di categoria, noi siamo stati a quello di Milano, dove la manifestazione fuori dalla Fondazione Feltrinelli in via Pasubio è diventata un corteo fino agli uffici Feltrinelli di via Quadrio. Le interviste sono di Roberto Maggioni.

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